The Humbling
Barry Levinson e Al Pacino tornano a lavorare assieme, ma il risultato delude le aspettative e conferma la scarsa fortuna dei romanzi di Roth al cinema

“Che diritto ha la mia testa di chiamarsi me? Che diritto?" si chiedeva ne L’inquilino del terzo piano il personaggio interpretato da Roman Polanski. Tagliando una parte dopo l’altra del proprio corpo, in quale momento si smette di essere sé stessi, se non arrivati alla testa? Ma forse il discorso può andare avanti, spingendo ancora più in là la sottrazione per attaccare l’interno invece che l’esterno, la mente invece che la carne e le ossa. L’umiliazione, ad oggi il penultimo romanzo di Philip Roth pubblicato nel 2009, risponde per certi versi a tale quesito. Cosa resta di un uomo, di un uomo d’arte e d’ingegno, se gli si toglie il proprio talento? Cosa rimane di ciò che fu se non un guscio vuoto? Per rispondere a questa domanda nasce il personaggio di Simon Axler, grande attore di teatro che giunto ai 60 perde improvvisamente la propria capacità di recitare. Da qui in poi si apre per lui una fase di profonda rinegoziazione, con il tempo e la malattia, per cercare di ridefinire se stesso al di fuori della recitazione o di morire provandoci.
Opzionato a ridosso dell’uscita dallo stesso Al Pacino, L’umiliazione diventa un film per la regia di Barry Levinson. A distanza di quattro anni dal riuscito film tv per la HBO You Don’t Know Jack - Il dottor morte, Levinson e Pacino tornano a lavorare assieme, ma il risultato delude le aspettative e conferma la scarsa fortuna dei romanzi di Roth al cinema.
Fin dall’inizio nel teatro, dal momento di crisi in cui il vuoto della conoscenza si apre per la prima volta nella mente di Simon, The Humbling appare come un film poco convincente. Levinson esibisce da subito un linguaggio carico di espedienti - camera a mano, distorsioni, dissolvenze, grana grossa - che appare però gratuito e inutilmente formalista. Invece che concentrarsi sul corpo del suo attore (beninteso ancora in gran forma), eccede ed esaspera l’immagine, perdendosi in inutili barocchismi. Fortunatamente nella parte centrale il ritmo visivo rallenta, e resta soltanto un continuo intrecciarsi di piani temporali che ben rappresenta la crescente confusione mentale di Simon, che inizia a sospettare di soffrire di qualche malattia mentre attorno a lui la casa si popola di visite inaspettate e grottesche. La prima è l’esuberante Pegeen (l’ex regina del mumblecore Greta Gerwig), figlia di amici di famiglia e lesbica che irrompe nella vita di Simon seducendolo e piegandolo ad una relazione assai poco tradizionale. Poi è la volta dell’ex partner di Pegeen, una donna divenuta uomo, a cui si intervalla una stalker decisa a far uccidere il proprio marito da parte di Simon.
Tristemente grotteschi, questi personaggi ruotano attorno a Simon come fantasmi prodotti da una mente eccentrica, mentre il confine tra realtà e finzione, vita e rappresentazione si assottiglia sempre di più. Sembra che Simon persa la sua capacità di stare sul palco non possa comunque fare a meno di ricreare e alterare la realtà, anche se attraverso la malattia. La sua ossessione è la riproduzione, il rapporto aporetico tra verità e recita, ma se nel romanzo di Roth tale dicotomia si fa colonna portante del racconto qui il tema galleggia sulla superficie della storia senza alcuna incisività. The Humbling si svela allora come un film modesto costruito tutto sulle robuste spalle di Al Pacino, un racconto che non riesce a rimpiazzare la prosa di Roth e che si accontenta così di portare avanti la storia accentuandone il lato grottesco e umoristico. Ne esce fuori un film che riesce a schivare le trappole del racconto senile grazie a delicatezza, comicità e grande recitazione, ma che oltre a questo ha davvero poco altro da offrire.
Solo il finale, leggermente diverso rispetto all’originale, riesce a colpire e a restare nella memoria, ma specie rispetto al precedente, giovanile e valido The Bay, questo The Humbling appare davvero come uno dei più poveri film di Barry Levinson.