Heaven Knows What

La storia vera di una tossicodipendente viene anestetizzata in una forma ibrida e ambigua mai davvero convincente

I registi Josh Safdie e Benny Safdie hanno conosciuto Arielle Holmes per caso, durante la preparazione di un loro precedente film. Dopo aver scoperto che la ragazza è un’eroinomane e averla ritrovata in ospedale in seguito ad un tentato suicidio, i registi le hanno proposto di scrivere una sorta di racconto delle proprie esperienze di vita. Dalle pagine scritte da Arielle i fratelli Safdie hanno ricavato la sceneggiatura di Heaven Knows What, interpretato dalla stessa Arielle accanto ad attori professionisti e non, in una indistinguibile fusione tra realtà e sua rappresentazione. Heaven Knows What offre allo spettatore l’occasione di tornare a interrogarsi sul rapporto tra cinema documentario e cinema di finzione, tra falsificazione e autentica restituzione del reale, mostrando quelli che sono i limiti di operazioni ingenuamente convinte di catturare il reale ricorrendo esclusivamente all’utilizzo di soggetti messi in scena nel loro quotidiano. La cosa curiosa è che senza i materiali stampa informativi e senza gli aneddoti sulla sua lavorazione, Heaven Knows What sembrerebbe allo spettatore un film di pura finzione, capace di raccontare con una qualche efficacia e parecchie banalità la vita di un gruppo di tossicodipendenti per le strade di New York. Il background dell’incontro con Arielle, dei tentativi di avvicinamento da parte dei registi e del lavoro di adattamento svolto con lei, resta fuori dal film. Come se la sola presenza della ragazza potesse garantire a priori quel grado di autenticità e di verità inseguito dai registi. Alla coppia di registi sembra sfuggire che la resa del reale implica un lavoro di falsificazione nettamente superiore a quella di qualunque film dichiaratamente fantasioso. Fingere di non fingere... Della realtà dei materiali di partenza (Arielle, l’emarginazione dei suoi amici, gli ambienti malfamati) resta ben poco in una messa in scena ossessionata dal campo/controcampo, dall’utilizzo di un invadente commento musicale per sottolineare le sequenze più intense, dall’assenza di pause nella narrazione, fosse anche solo una minima insistenza sulla durata del frame, come a voler simulare l’attesa di un qualcosa di imprevedibile e imprevisto. Una speranza, la nostra, puntualmente disattesa da un film che, così confezionato, ci appare tutto scritto, preparato, anestetizzato. Ma a smontare il realismo di Heaven Knows What basterebbe già solo il climax del finale, pura esplosione delle più elementari regole dello storytelling, o l’incubo di Arielle, scambiato dallo spettatore per vero e poi subito smentito dal primo piano della ragazza che si sveglia di colpo: un incubo conclusivo, evidentemente un escamotage da horror di serie B, capace di dare il colpo di grazia alla veridicità documentaria del film, come a voler significare che alla finzione, alle regole dei generi e alle strutture narrative non si scappa. Il cinema vince sempre. E anche all’interno di un’operazione volutamente ibrida (la realtà rielaborata e riadattata all’interno di una forma di racconto filmica), si rimane perplessi davanti alla totale assenza di consapevolezza metalinguistica, al modo con cui il film ignora completamente l’interrogazione sul linguaggio del cinema, sulle modalità possibili per tentare di restituire la reale vicenda di Arielle Holmes limitandosi a offrire allo spettatore il lavoro già finito, impacchettato negli ordinari novanta minuti, monco di tutto il lavoro preparatorio (dal primo incontro con Arielle fino al primo ciak) che, siamo sicuri, sarebbe stato assai più interessante di tutto Heaven Knows What.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 29/08/2014

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