As the Gods Will

L'ultima follia di Miike non è solo il miglior film del regista da diversi anni a questa parte, ma anche il suo nuovo, schizoide film-manifesto, assai più complesso di quanto potrebbe sembrare.

“La mia vita è una noia” dice Shun Takahata all’inizio dell’ultimo film di Miike Takashi. Non si fa a tempo ad assorbire la frase del ragazzo che, immediatamente, ci troviamo catapultati in un altro luogo. La telecamera vola in cielo mentre, tra le nuvole, scorgiamo i piccoli, insulsi grattacieli di una metropoli. Stabilire il punto di vista è la prima difficoltà, il primo ostacolo di As the Gods Will. Le parole di Takahata risuonano come una preghiera rivolta agli dei, nella speranza che qualcosa di straordinario possa irrompere e ribaltare l’ordinario. Già quest’inizio vive tutto nell’attesa di una catastrofe tanto impossibile quanto imminente, di una novità miracolosa e distruttiva che possa scendere dal cielo e far pulsare la vita di ogni singolo cittadino.

Non si tratta di attese messianiche, ma forse di un giudizio universale dalla forza anarchica e mai restauratrice: quest’evento nel cinema di Miike è necessariamente desacralizzato, complice il fascino eversivo della sua tanto sfacciata impertinenza. Lo slittamento di piano è subito evidente: il sacro viene squarciato dal ludico, l’apocalisse si trasforma in un videogioco mortale, dove l’eletto non sarà solo il più intelligente, immaginativo e forte, ma anche – e soprattutto – il più fortunato.

Struttura a livelli, nemici mortali, domande beffarde e il game over sempre in agguato. Già dai pochi secondi descritti, As the Gods Will, oltre a rivelarsi il miglior Miike da diversi anni a questa parte, rinnova il suo cinema ergendosi a nuova opera-manifesto (così come negli anni novanta il finale del primo Dead or Alive era la chiave ideale per accedere al suo cinema). Perché è bene ricordare che la produzione di Miike nasceva da una situazione di stallo all’interno di un panorama cinematografico troppo ancorato alle convenzioni del passato per poter davvero risorgere. La noia del quotidiano, di cui si lamenta Takahata, è la noia stessa che ha permesso al cinema di Miike di nascere e sconquassare un’intera cinematografia. Il gesto filmico del regista è sempre stato politico, perché distruggeva ogni istanza prefissata.

L’autore di opere capitali quali Visitor Q, Gozu o Ichi the Killer è identificabile come l’evento straordinario del cinema giapponese, la mente geniale in grado di giocare con i generi cinematografici, di ribaltare assiomi precostituiti, identità sessuali predeterminate, di generare uomini-zebra e scene di parto impossibili. Se il suo cinema è sempre stato all’insegna dell’imprevedibilità, allora è bene dire che negli ultimi anni, tranne qualche felice eccezione, la sua forza sembrava pericolosamente sbiadita. Miike era andato incontro alla sua stessa etichetta, finendo per ergere una sorta di genere cinematografico (quel miikismo che ha portato alla produzione derivativa di diverse opere alimentari). Tutta la sua irriverente follia sembrava essere ormai paradossalmente edulcorata.

As the Gods Will è invece, programmaticamente, dalla prima all’ultima inquadratura, un’opera straordinariamente non-conforme, miikiana non per etichetta ma per brio: film che gioca con il suo spettatore, portandolo nei meandri di un incubo di cui è sempre impossibile scoprire la prossima mossa. In balia dell’impossibile, i personaggi del film agiscono, corrono e muoiono, ma accade sempre qualcosa che nessuno si aspetta: quando una sequenza pare decifrabile nella sua struttura codificata, Miike interviene prontamente a ribaltarla. Tutto in As the Gods Will lavora sullo spaesamento, sull’adesione a un codice che, una volta utilizzato, viene non solo spezzato, ma radicalmente decostruito e rivoluzionato. Si pensi alla splendida sequenza romantica verso il finale, in cui il “genere”, la “situazione” vengono saturati (quasi) fino a fisiologica detonazione: eppure prima dell’esplosione quella sequenza si inverte nel suo contrario, producendo un cortocircuito, generando un aborto, uno scarto tanto vitale quanto mortuario.

Il momento stesso dell’azione viene ribaltato: l’eroe sbaglia, si riempie di ridicolo, non fa quel canestro che ogni scuola di narratologia avrebbe esatto come regala aurea. Il familiare diviene estraneo, o quantomeno oggetto degno di sospetto, perché nasconde delle insidie che potrebbero trasformarlo in qualcosa di mostruoso e ignoto. Questo il segreto del trasformismo miikiano, della carica mutante che investe ogni singola inquadratura, per farci sentire – sempre e comunque – nomadi in terra straniera.

A un minuto dall’inizio del film entriamo immediatamente in medias res: con una velocità sorprendente, la nostra attenzione viene catturata in modo subitaneo da una testa Daruma che introduce il grande gioco dell’opera. Un gioco pericolosissimo, che percorrerà tutte le nostre ludiche esperienze infantili, avanzando in territori noti e gradevoli per macchiarli di una follia rossa sangue. L’unica cosa certa è che perdere significa morire. Gatti giganti, orsi polari, perfino una matrioska: la vera crudeltà è quella che fa scompisciare dalle risate. I giocatori sono studenti liceali, che, dopo le prime due prove, vengono prelevati e portati a bordo di un cubo volante dove il gioco continua.

Il videogame si trasforma in evento mediatico, dove tutta la popolazione può assistere al gioco mortale proiettato su schermo gigante. Questo reality che uccide è l’affermazione parossistica di qualsiasi pulsione scopica, la legittimazione di un occhio che – questa volta – non solo elimina ma attua autentiche stragi videoludiche. I richiami sacrali esplodono a livello mediatico, da sempre affamato di trascendenza ad altezza player. Ecco allora che i sopravvissuti vengono chiamati figlio di Dio, come se la vita fosse destinata a un ristretto manipolo di eletti, mentre i reietti sono condannati a soccombere in modo atroce.

In Miike l’esperienza ludica è sempre quel vettore caustico pronto a veicolare un’idea di cinema ben precisa. In questo Jumanji anarchico, il regista giapponese sembra riportare a casa i modelli di film-game di cui l’industria cinematografica americana si è appropriata negli ultimi anni (Hunger Games ne è l’esempio più calzante), finendo per rivendicarne l’appartenenza. Ma, al contrario dei coevi americani, mostra un rispetto incredibile per i suoi personaggi, non riducendo la loro psicologia alla dittatura industriale della funzione narrativa. Paradossalmente utilizza la struttura di un film-game per liberare i suoi personaggi dalla mediocrità psicologica del player. Anzi, osa ancora di più, portando avanti la storia “parallela” di un fumettista hikikomori che sembra, in modo sorprendente, essere il creatore stesso di una storia che gli è sfuggita di mano: geniale e ambizioso richiamo metatestuale che restituisce al manga ciò che gli è proprio (il film è infatti tratto dal manga Kami sama no Iutoori di Muneyuki Kaneshiro e Akeji Fujimura).

Ancora una volta Miike si conferma uno degli autori più politici, stratificati e complessi del cinema contemporaneo: terrorista dell’immagine, autore schizoide e bulimico, con questo film sfreccia un altro dardo infuocato contro ogni forma di adagio e ogni bieco, borghesissimo ordine di buon gusto. As the Gods Will restituisce al regista la sua natura non-conforme, il suo grido alieno a qualsiasi tipo di incasellamento critico. E la sua voce anarchica risuona in modo destabilizzante ben oltre la fine dei titoli di coda.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 18/10/2014

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