GAM Milano / Adolfo Wildt. L'ultimo simbolista

La prova dell’uovo. Lo scultore santo riconquista la sua città.

«Adolfo Wildt è di tutti i moderni scultori italiani, quello che meglio può sentire ed esprimere, nei modi della sua arte, la santità, perché egli stesso è un santo…». Queste le parole di Ettore Cozzani. Correva il 1926.

Santo, forse. Osannato e disprezzato, dalla critica e dai suoi contemporanei, sicuramente. E condannato, fino a qualche decennio fa, a quello che in vita non aveva mai sperimentato: l’indifferenza.

Bistrattato in Italia e pressoché sconosciuto all’estero, Wildt è stato a lungo relegato sugli scaffali delle biblioteche degli addetti ai lavori. Ancora oggi non è certo un nome familiare al grande pubblico, nonostante si tratti forse del maggiore scultore italiano del principio del secolo scorso.

Grazie allo straordinario lavoro della GAM, che si inserisce in un percorso dedicato alla scultura, avviato la scorsa primavera con la mostra dedicata a Medardo Rosso, la sua opera viene finalmente raccontata. Il primogenito del portinaio di Palazzo Marino può finalmente tornare nella sua Milano.

Il percorso espositivo presenta cinquanta sculture e dieci disegni originali di Wildt ed è sviluppato cronologicamente, al fine di ripercorrere con chiarezza la sua evoluzione artistica, sviscerata in sei sezioni. Sotto l’ala dei maestri (1885-1906) racconta la prima produzione, successivamente rinnegata, di stampo naturalista, mostrando bene il solido legame di Wildt con la tradizione artistica italiana, e la sua forte predilezione per il Rinascimento. Evidente sin dagli esordi la straordinaria maestria tecnica, che il giovane Wildt deve ad una formazione insolita e singolare, data dalle sue umili origini: garzone di un barbiere, entra a bottega prima da un orafo, poi da un marmista. La conoscenza profonda del materiale ne fa immediatamente un virtuoso.

Si passa alla seconda sezione, La poesia del chiaroscuro (1906-1915): è un momento di messa in discussione della propria arte, sono gli anni di una lunga depressione, quella che lui stesso chiamerà «notte mentale». Una notte in cui, come spesso accade, si distrugge quasi tutto e si crea ben poco. Il naturalismo cede il passo ad un espressionismo tormentato, e ad un gusto per le anatomie distorte, grottesche. I corpi sono deformati alla ricerca dell’«effetto psicologico, spasmodico». Eppure il marmo è perfetto, impalpabile. Sono gli anni delle maschere e delle orecchie.

Gli anni della guerra vedono l’abbandono di ogni eccesso. La famiglia mistica (1915-1918), sezione che affronta il tema della madre e del figlio, della Madonna e del Bambino, apre ad un’iconografia nuova, più arcaica e spirituale. Se il linguaggio è quello dell’ellissi, le sue radici vanno cercate in tutta l’arte sacra, egizia e germanica in primo luogo, ma anche manierista e barocca. Ma i riferimenti non sono mai affastellati l’uno sull’altro, e le iconografie tradizionali vengono costantemente reinventate: Wildt semplifica e dissolve, verso una dimensione pura, fatta di distacco e contemplazione. Allora I Pargoli «assumono la forma di esili feti sospesi al filo della vita», che ricordano quasi gli steli da cui sbocciano gli occhi indagatori della Santa Lucia dipinta da Francesco del Cossa: boccioli fragili, congelati in un eterno non fiorire.

L’estetica elaborata da Wildt vede negli anni immediatamente successivi un’epurazione ancora più decisa. La quarta sezione, L’asceta del marmo (1918-1926), descrive bene il disseccamento delle fisionomie che l’artista attua nella rappresentazione dei santi e di concetti immateriali. La vena arcaica si fa più forte, a sottolineare il forte portato simbolico di certi motivi, come le stelle, e persino nel recupero della tecnica artistica per eccellenza della prima cristianità: il mosaico.

La penultima sezione, L’architettura delle forme(1922-1926), racconta le persone, Margherita Sarfatti e Benito Mussolini, che offuscheranno la figura di Wildt. In questi anni, la predilezione va, quasi banalmente, al ritratto, mai realistico e sempre più «ritratto di idea». Perfetto, sembrerebbe, per l’ideale di arte del fascismo: invece, ancora una volta, amato e odiato, stupì tutti e non convinse nessuno. Furono proprio quei ritratti di Mussolini a condannarlo all’oblio, per la prima volta all’unanimità. Inaccettabile esporlo nei musei.

Arriviamo alla fine della mostra, ed entriamo nella sesta sezione, Milano, gli amici e gli allievi. Fontana e Melotti. Entrambi allievi presso la Scuola del marmo, fondata da Wildt nel 1922, entrambi debitori riconoscenti. Potrà stupire trovarli qui, eppure in loro rivediamo, esaltata e non nascosta dall’astrazione, la stessa conoscenza del materiale e la ricerca plastica del loro maestro.

Prima di uscire, alla nostra destra, il test d’ingresso che Wildt richiedeva a chi si candidava a diventare suo alunno: scolpire un uovo in marmo, perfettamente levigato. L’uovo, il simbolo più mistico e al tempo stesso umile che possa venirci in mente. Proprio come Wildt, che la sua prova, alla fine, è riuscito a superarla.

Autore: Giulia Belluco
Pubblicato il 12/01/2016

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