Fargo - 3° stagione

La terza annata della creatura di Noah Hawley conferma tutte le qualità cui ci ha abituato in passato e rilancia una riflessione sul rapporto verità/finzione attraverso le maglie della favola morale.

This is a (true) story.

Nella terra degli uomini ogni verità ha in sé una storia ma soprattutto ogni storia può avere la sua verità, la sua versione dei fatti, la sua irriducibile pretesa di imporre una forma a quel caotico flusso che è il mondo. Informazioni, alibi, giustificazioni, racconti. Arrivata alla sua terza stagione Fargo affronta di petto e con una programmaticità nuova il rapporto ingannevole che c’è tra verità e finzione, dicotomia che già i fratelli Coen ponevano in apertura del loro film. La prima scena della premiere di quest’anno è a riguardo indicativa: siamo nella Berlino Est di fine guerra fredda, un interrogatorio per omicidio durante il quale fatti e versioni collidono tra loro, mentre indizi visivi complicano un panorama apparentemente privo di riferimenti oggettivi. Poco o nulla tornerà di quel prologo ma la direzione è tracciata con chiarezza, ribadita in ogni puntata dai sempre mutevoli titoli di testa. This is a (true) story.

Ma oggi, all’alba digitale e social del terzo decennio del Duemila, come possiamo confrontarci con l’una, nessuna e centomila versioni del reale senza apparire in qualche modo in ritardo sul mondo stesso? L’iper-connessione globale non ha forse interiorizzato tale contrasto, nutrendosi di concetti quali post-verità e fake news? Ben consapevole di questo panorama – tanto da fondare su di esso molta della forza evocativa di questa stagione – Noah Hawley scarta dall’eterna mise en abyme di una realtà che si nega moltiplicando le versioni di sé stessa, e porta la sua riflessione sul terreno che da sempre soggiace a tutta l’operazione Fargo: la questione morale.

E’ con questo passaggio che il discorso realtà/finzione si riversa nel più generale e irrisolvibile rapporto che lega il fato all’agire umano. Proseguendo nell’esemplificazione pratica del terreno ideologico su cui si gioca da sempre Fargo e in particolare questa stagione, il quarto episodio dell’annata, The Narrow Escape Problem, espone con chiarezza la questione quando ci racconta di come esistano, nella lingua russa, tre parole per riferirsi al concetto di verità: pravda, nepravda, istina.

La prima è la verità degli uomini, la storia che si fa vulnerabile a cambiamenti e interpretazioni. Il suo opposto è nepravda, la non-verità, la lingua dice il killer Yuri Gurka che è preferita dai politici, da coloro che giocano con i fatti e le versioni come fossero tessere di un mosaico sempre mutevole. Fargo è un universo popolato di uomini alle prese con le loro verità, piccoli uomini e piccole verità che si mescolano e confrontano tra loro alimentando le più intime memorie del sottosuolo con atti di meschinità, avidità e miopia morale. Come i due fratelli interpretati da Ewan McGregor, Emmit e Ray Stussy, fratricidi e traditori ma mai capaci di assurgere alla dignità mefistofelica del Male (incarnato divinamente da David Thewlis con il suo V.M. Varga). Emmit in particolare, un novello dottor Faust che sconta il prezzo di un patto col diavolo mentre lega il suo destino ad un francobollo su cui è stampata l’immagine di Sisifo alle prese con la sua scalata, esemplificazione dell’astuzia umana punita ab aeterno dal volere divino.

Eccoli quindi gli attori protagonisti del dramma morale inscenato a Fargo, Minnesota, dal demiurgo Hawley: i piccoli uomini, il Diavolo, il Divino, il caos. Qui entra in gioco la terza parola russa per definire la verità, istina, che è per l’appunto la verità di Dio, la verità assoluta che scruta e grava sul palco dell’agire umano. Se i protagonisti di Fargo si raccontano storie per andare avanti, storie personali e collettive per cercare di dare un senso all’esistenza umana, attorno a loro sopravvivono i pilastri biblici di un occhio divino, una presenza metafisica (incarnata da Ray Wise nel lynchiano, superbo, ottavo episodio della stagione) che limitando al minimo gli interventi diretti riconduce l’azione ad un paradigma morale netto, pulito, in cui Bene e Male si confrontano litigandosi l’animo degli uomini alle prese con il caos. In questo panorama trova la sua profonda ragione d’essere il personaggio di Gloria Burgle, che come i precedenti Lou Solverson e Molly Solverson incarna il senso etico e la bontà d’animo che i fratelli Coen avevano affidato alla Marge Gunderson di Frances McDormand. Sono questi personaggi, spesso femminili e in contrasto con un mondo maschile cieco, respingente, ottuso (il maschilismo è il grande avversario di Gloria nel corso di tutta la stagione) a portare avanti la fiaccola della miglior umanità mentre in tanti attorno a loro si smarriscono nella bufera di neve del reale. Di fronte a un mondo fatto di caos, in cui il divino stesso interviene con tanto distacco da apparire capriccioso e imperscrutabile a sua volta, Hawley e i fratelli Coen continuano a ricordarci l’importanza di conservare una propria bussola morale che possa fare da guida e sostegno. L’alternativa è l’isolamento, la disumanizzazione, la violenza che si moltiplica in tanti tasselli che danno vita a un effetto domino che si ripercuote senza sosta, scatenando il sottosuolo dostoevskiano delle segrete e più squallide pulsioni.

In un momento in cui nuovi fenomeni seriali e televisivi ci portano a ripensare annualmente il rapporto tra cinema e televisione, la Fargo creata da Noah Hawley e dalla sua squadra si conferma uno dei prodotti seriali più preziosi e ricercati del panorama contemporaneo, uno show capace di unire a tutti gli elementi di forza della quality tv (ricerca stilistica, recitazione e scrittura sempre di alto livello) una complessa e coerente weltanschauung, espressa con il peso e la fiera intelligenza della miglior favola morale.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 24/07/2017

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