Far East 2015 / The Tribe

Un esordio cinematografico di rara potenza, lucidissimo nel far dialogare una riflessione sulla natura audiovisiva del cinema con una solida narrazione di genere

The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy è un esordio che non può lasciare indifferenti, un film durissimo ma magnetico nella sua lampante potenza cinematografica.

Girato integralmente con il linguaggio dei segni e senza ricorso a sottotitoli, il film di Slaboshpytskiy racconta l’educazione alla violenza di un ragazzo ucraino mandato a studiare in una scuola per sordi. Qui il protagonista (Sergey, ma il nome lo scopriamo arrivati ai titoli di coda perché non viene pronunciata una sola sillaba per tutto il film) troverà un microcosmo criminale fatto di sfruttamento e prostituzione alla cui base vige la violenza del più forte. Tutti all’interno della cerchia sono chiamati a lavorare per la tribù, ed ecco così i più piccoli vendere giocattoli in treno, le ragazze più belle prostituirsi per i camionisti parcheggiati di notte e i loro compagni maschili fare da papponi, ladri, ricettatori.

Come se il venir meno della parola permettesse al regista di muoversi idealmente verso il baricentro animale insito nell’anima umana, The Tribe sembra quasi un documentario naturalista per come dimostra di voler catturare atteggiamenti vicini ad una ritualità iniziatica di stampo primordiale. Chiaramente il procedimento è astratto, Slaboshpytskiy non vuole offrire una rappresentazione realistica di una comunità audiolesa e soprattutto non vuole veramente filmare un ritratto sociale di una realtà degradata. Più che fare denuncia sociale il film allora trasforma una vita di indubbia miseria e sofferenza umana trasfigurandola in un inferno animale all’interno del quale cose e persone precipitano in uno stato di brutalità finale, post-apocalittica. Non a caso non abbiamo elementi per collocare precisamente la narrazione (solo la location dell’Ucraina è resa palese) ma nonostante questo lo spazio svolge una parte fondamentale nel rendere la potenza espressiva del film e la sua decadenza.

Impreziosito da una regia capace di unire rigore e virtuosismo, The Tribe scorre un piano sequenza alla volta. Il venir meno della parola sonora disinnesca la logica del campo-controcampo, permettendo a Slaboshpytskiy di costruire il suo film tra lunghe inquadrature fisse e sinuose traiettorie di steady, un’alternanza ben calibrata atta a sviluppare un rapporto costante tra i personaggi e l’ambiente in cui si muovono. Sparite le figure di riferimento (lo Stato non esiste, la Preside della scuola scompare ben presto e gli unici adulti che vediamo sono sfruttatori tra clienti e organizzatori) e persa ogni traccia di umanità, anche lo spazio viene meno, come fosse annichilito e corroso da una fine del mondo che ha lasciato dietro di sé solo rovine. Ogni ambiente del film appare allora devastato e povero, la società reale e le persone esterne alla tribù non appaiono quasi mai, e anche se Slaboshpytskiy forza un po’ la mano per non far sentire mai il suono della voce umana l’effetto finale convince per coerenza e potenza espressiva.

In questo contesto di privazione e violenza Slaboshpytskiy inserisce una favola oscura, la cui evoluzione fa da guida allo spettatore attraverso le tante conversazioni solo deducibili ma mai pienamente chiare. Sergey infatti dovendo fare da protettore di una delle ragazze finirà per innamorarsi di lei, nonostante il loro rapporto proceda a colpi di soldi scambiati per prestazioni sessuali. L’interesse del ragazzo è l’unica scintilla di umanità all’interno dell’universo del film, un sentimento quasi alieno, sicuramente sorpassato, che non può quindi che fallire finendo per alimentare a sua volta la spirale di violenza che sorregge l’intera struttura.

Tutti questi aspetti, che contribuiscono con il loro valore a fare de The Tribe uno dei film più interessanti dell’anno passato, non possono certo essere scissi dall’intuizione alla base del film, la volontà di Slaboshpytskiy di utilizzare solamente il linguaggio dei segni. Una scelta questa che permette al regista di fare quello che a pochi riesce, ovvero filmare un’esplorazione teorica della macchina audiovisiva portando avanti di pari passo una solida narrazione di genere, senza che la prima infici la seconda o viceversa. Per chiudere il discorso su The Tribe allora può essere interessante passare per quanto detto da Michel Chion, studioso francese che da anni si dedica al rapporto tra suono e cinema. In particolare concentriamoci su due assunti: il cinema – anche quando era muto – è sempre stato sonoro; il cinema muto esiste ancora e vive all’interno del cinema parlato.

La prima affermazione nasce dall’intuizione secondo la quale il cinema muto non può esistere senza una relazione con la sfera sonora, e questo non per la musica di accompagnamento o altro. Quella che si instaura tra il muto e il suono è una relazione dialettica di presenza in negazione, i dialoghi e le azioni del cinema muto non possono che fare riferimento alla sfera sonora mentre la negano e proprio perché la negano. Ogni film muto si connette in un modo o nell’altro al suono che non restituisce, lavora su di esso in un legame che si crea all’interno della mente dello spettatore.

La seconda affermazione è direttamente consequenziale alla prima: se il cinema è sempre stato sonoro il cinema muto può non sparire con l’avvento della parola, ma anzi sopravvivere con le sue logiche di rappresentazione (gestuale e visiva, ma soprattutto in relazione al lavoro sull’assenza di suono) all’interno dell’odierna resa sonora (come dimostra ad esempio la costruzione della famosa scena della sigaretta alle giostre ne Gi Uccelli).

Il perché di questa breve detour lo troviamo nella dimensione sonora di Slaboshpytskiy. The Tribe infatti non è soltanto un film parlato ma urlato, a volte addirittura assordante. Le lunghe, dinamiche conversazioni gestuali tra i protagonisti richiamano il cinema muto non solo nella resa di una conversazione a-verbale ma nel suo costante riferimento al suono inteso come negazione, sottratto ma comunque capace di arrivare allo spettatore. Allo stesso tempo la componente ambientale della sfera sonora riveste un ruolo fondamentale, per come colloca lo spettatore al centro di un cortocircuito nel quale non può “sentire” i dialoghi ma sente i suoni che i personaggi non odono, e ai quali quindi non possono reagire generando un meccanismo di perfetta suspense hitchcockiana. Per questi e altri motivi The Tribe è anche una grande esplorazione di quel rapporto dialettico tra suono e immagine intrinseco alla comunicazione cinematografica.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 26/04/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria