Far East 2013 / Day 9

Tocca al jidai-geki Rurouni Kenshin aprire quest’ultima giornata di Festival, sorprendente film di samurai che pur partendo dal giovanilistico manga di Watsuki Nobuhiro rivela un respiro malinconico e un senso drammatico del tempo degno di un western crepuscolare. La vicenda del ronin Himura Kenshin – che dopo una vita da assassino ed un voto si trova a dover proteggere qualcuno senza poter uccidere nessuno – viene infatti collocata dal regista Otomo Keishi in quegli anni di passaggio dal feudalesimo alla modernizzazione in cui il Giappone avvia una corsa che lo porterà ad abbandonare tante delle sue tradizioni. In questo quadro i samurai sono quanto di più anacronistico ci sia, e non a caso molti di essi finiscono come lavoratori sottopagati per il commerciante Takeda Kanryu, simbolo della parte più corrotta e squallida del capitalismo in arrivo. In questo senso appare decisiva la scena dello scontro finale tra Kenshin e l’esercito di samurai falliti di Kanryu, che prende piede sotto una fitta pioggia di banconote lanciate dal mercante per richiamare i suoi uomini. Altrettanto convincenti sono tutti gli scontri disseminati nella storia, costruiti in equilibrio tra spettacolarità e realismo e ben collocati nella narrazione. Nonostante il suo target giovanile – confermato anche dalla scelta di casting del giovane e belloccio divo Sato Takeru – Rurouni Kenshin è un’ottima rivisitazione pop del mito del ronin, abitata da bei personaggi e diretta con mano solida, capace anche di suonare inaspettate corde malinconiche ad impreziosire il tutto.

La perla della giornata è però il seguente Mariposa in the Cage of the Night del filippino Richard V. Somes, che potremmo definire come un Velluto blu ambientato a Manila. La storia è quella di Maya, una giovane tornata in città per indagare sull’orribile morte della sorella, ripercorrerne la deriva e capire i come e i perché, cercando nel frattempo di trovare il denaro necessario per evitare che il corpo vada in studio ad un’università invece di essere sepolto. Il problema è che i giri in cui è finita la sorella di Maya sono veramente oscuri, e porteranno la giovane ad immergersi negli umidi strati sotterranei più folli e corrotti e inquietanti della città, in un precipitare nei meandri del tessuto urbano degno del più classico dei noir. Il vagabondare di Maya però non si limita ad attraversare terreni criminali e pericolosi, si arriva in teatri di sofferta e ossessiva perversione che spingono il film oltre il noir verso lande orribilmente oniriche, verso incubi lynchiani. E quando scopriamo che il mattatore del bordello in cui è morta la sorella di Maya, in cui giovani donne vengono rapite e mutilate per i gusti di un mercato sessuale demoniaco, si chiama Frank, proprio come il personaggio interpretato da Dennis Hopper in Velluto blu, il parallelismo avvertito si fa evidente e scoperta riscrittura. C’è chi forse attaccherà Mariposa in the Cage of the Night di arido derivazionismo, ma per noi questa è invece un’autentica possessione; il recupero di un’opera fondamentale che rivive aggiornata negli incubi locali di Manila, come un grimaldello testuale usato per scoperchiare gli orrori che formicolano nascosti sotto la patina più modernizzata e sensuale delle Filippine. Rispetto al capolavoro di Lynch cade ovviamente l’attacco politico nei confronti del perbenismo ipocrita della borghesia di provincia americana, ma Somes si dimostra perfettamente consapevole dell’inevitabile scarto tra le due opere, colmando la sua di una dimensione corporea e terrigna estranea al film di Lynch, che porta lo spettatore a sentire sulla propria pelle tutti gli orrori in cui si imbatte Maya, fino all’atroce e fulminante finale. Nonostante un’eccessiva confusione delle scene più adrenaliniche – gli unici momenti di calo di una regia altrimenti perfetta – Mariposa in the Cage of the Night è sicuramente una sorpresa incredibile, uno dei film migliori di questa edizione del Far East.

Scampati alle angosce di una Manila da incubo, ci avventuriamo negli ultimi tre film rimasti del festival, in cui purtroppo c’è poco di valido, il meglio è ormai alle nostre spalle. Il peggiore dei tre è sicuramente il successivo Ghost Sweepers , il film sudcoreano meno convincente di quelli visti in questi giorni. Lo pseudo-horror di Shin Jung-won è infatti un film che per combinare i suoi pochi elementi di spavento ai tanti di commedia ricorre alla facile strada dello slapstick demenziale, costruendo un’opera su facce buffe, inciampi, sberleffi, incidenti di ogni sorta. Con personaggi abbozzati e poco credibili (perché anche in un film come questo la credibilità è importante, i protagonisti di Ghostbusters per esempio lo sono senza problemi) Shin Jung-won trascina avanti un film che non funziona e diverte poco, sprecando una buona squadra di attori e uno spunto interessante senza una vera struttura a reggere il tutto. Estremamente scritto e calibrato in tutti i suoi elementi è invece il successivo I Have to Buy New Shoes , romantico film giapponese girato nelle strade più turistiche di Parigi. Racconto quasi onirico – con la fotografia apertissima che riempie di luce ogni inquadratura, anche troppo –, il film di Eriko Kitagawa è un delicato incontro tra due persone isolate, due giapponesi che si incrociano casualmente e poi non si lasciano più, o almeno fino a quando il più giovane dei due dovrà partire per tornare a casa. Armato quasi sempre di steady, Kitagawa segue tutte le dinamiche dei suoi due protagonisti, tallonati per tutta la durata del loro rapporto, tre giorni densi di scoperta reciproca e di lenta fascinazione, forse anche innamoramento, senza però alcun rapporto di natura fisica. Oltre a quest’assenza corporea fin troppo favolistica, I Have to Buy New Shoes poco convince per le tante riprese smaccatamente da cartolina, costruite sul fascino dell’esotico più facile e immediato. Allo stesso modo gli abitanti parigini intercettati dai protagonisti sono poco più che macchiette, gusci vuoti privi di alcuna alterità; a convincere è invece la bravura della protagonista più anziana, Miho Nakayama, che con piccoli gesti costruisce un personaggio credibile e complesso. Abbastanza insipido invece il suo compagno, come anche la vicenda comprimaria di sua sorella alle prese con un ragazzo in fuga e una storia a distanza che svela sempre più crepe. Vicino comunque a certo cinema francese, specie per l’intimità soffusa del racconto e per la leggerezza della macchina da presa, I Have to Buy New Shoes appare un’opera a metà, divisa tra omaggio e cartolina, profondità e facile sentimentalismo.

A chiudere quest’edizione del Far East arriva un film totalmente diverso, produzione hongkonghese indirizzata però a tutto il mercato asiatico, lo storico Saving General Yang di Ronny Yu, regista conosciuto anche in occidente per alcuni incerti lavori ad Hollywood, tra cui Freddie vs. Jason. Yu, a capo di una produzione evidentemente ingente, riporta sugli schermi una delle più celebri vicende della storia cinese, che ha ispirato negli anni adattamenti cinematografici e televisivi. Qui il coraggio dei sette fratelli Yang, che si sacrificano per riportare il padre in patria dopo che egli è stato tradito sul campo di battaglia, viene raccontato nella cornice di un imponente blockbuster d’azione, carico di effetti digitali di discreta fattura ma soprattutto abbondante di imponenti scene di massa in costume, scontri da cui Yu non riesce a ricavare il massimo ma che comunque rendono la pellicola sufficientemente corposa. Insipidi invece i personaggi dei fratelli, tutti uguali tra loro e soprattutto accumunati da un senso del dovere che si tinge, specie nell’ottica di una distribuzione sul suolo cinese, di umori moralistici e conservatori.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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