The End of the F***ing World

Su Netflix l’adattamento indie della graphic novel ideata da Charles Forsman.

Tutti sanno che The End of the F***ing World, serie inglese mandata in onda dal 27 ottobre su Channel 4 e All 4 in Gran Bretagna, e dal 5 gennaio 2018 disponibile su Netflix, è tratta da una graphic novel americana di Charles Forsman, pubblicata originariamente dalla sua Oily Comics in 8 mini-comics ovvero brevi albi di otto pagine, tra il settembre 2011 e il febbraio 2013.

Meno di tutti, decisamente pochi, sono a conoscenza del fatto che la graphic novel è stata data alle stampe anche in Italia nell’ottobre del 2017, grazie alla 001 edizioni.

Quasi nessuno sa che uno dei registi della serie, Jonathan Entwistle (l’altra è Lucy Tcherniak), ne aveva già tratto un film tv nel 2014, con protagonisti la stessa Jessica Barden nei panni di Alyssa, ma con Craig Roberts in quelli di James.

Curiosa coincidenza: Craig Roberts è noto ai più come protagonista di Submarine, esordio cult alla regia dell’attore Richard Ayoade (The It Crowd) e film citato dalla maggior parte delle recensioni e dei commenti sul web come principale riferimento e fonte di ispirazione. Non è scorretto, ma c’è anche altro.

The End of The F***ing World si presenta, abbastanza chiaramente anche per chi ne conosce solo la trama, come il classico coming of age di coppia in forma di road movie, ed è logico, quindi, trovarvi echi dei vari Una vita al massimo, Cuore selvaggio, La rabbia giovane e Natural Born Killers, i cui protagonisti, in fondo, appaiono disadattati solo perché è il mondo in cui vivono ad essere un gran brutto posto. Questo aspetto, ad essere sinceri, è maggiormente evidente nella graphic novel dove, oltre a un’apparente staticità ossimorica rispetto al genere di riferimento (i protagonisti viaggiano, ma il tratto estremamente stilizzato del disegnatore fa sì che sembrino stare sempre nello stesso posto), non c’è un personaggio che possa definirsi positivo. Il padre di James, ad esempio, è un vero bastardo e non un povero cristo che ha l’unica colpa di essere un debole, come quello rappresentato nella serie. Allo stesso modo, la detective che segue le indagini (una sola, non due) è probabilmente membro della stessa setta cui appartiene il professore assassinato, e insegue i protagonisti per sete di vendetta e non per fame di giustizia, quella che, invece, caratterizza almeno una delle due agenti della versione live action (Eunice, interpretata da Gemma Whelan) e che vede in James e Alyssa due vittime più che due colpevoli.

Nel passaggio da un medium all’altro, la sceneggiatrice Charlie Covell (più nota come attrice e vista in Misfits, Cucumber, Banana e Marcella, anche questa visibile su Netflix) ha, infatti, smussato gli aspetti più duri della graphic novel (oltre ai caratteri già descritti, nelle strisce James, da piccolo, infila la mano nel tritarifiuti e non nella friggitrice, ed è quindi mutilato), mentre ha riservato maggior cinismo per i personaggi che Forsman lascia fuori campo. È il caso della madre di Alyssa e del suo compagno Tony, un angloindiano che sfugge a quella rappresentazione politicamente corretta dal sapore colonialista che ancora ritroviamo in pellicole come il recente Victoria e Abdul di Stephen Frears, e si rivela gretto, viscido ed egoista.

Dove la graphic novel dà dei punti alla serie è nel non cedere alla tentazione mainstream, grazie anche alla matrice underground con cui nasce il progetto, un atteggiamento che forse non è lecito aspettarsi da una serie che non vuole e non può essere di nicchia (in tal senso va considerata la scelta del protagonista, l’Alex Lawther di Shut Up and Dance, terzo episodio della terza stagione di Black Mirror). Pertanto, mentre Forsman sembra ispirarsi al tratto di un Hank Ketchman innestato con Robert Crumb, la serie, sia nel linguaggio (con quei grappoli di inserti soggettivi e diegetici dislocati, per dirla con Metz) che nelle strizzate d’occhio gratuite (il cd in auto di cui si può ascoltare solo un brano, Keep on Running di The Spencer Davis Group, riprende la celebre gag di How I Met Your Mother in cui durante un viaggio Ted e Marshall ascoltano più volte 500 Miles dei Proclaimers) mostra da subito la volontà di piacere ad un target hipster/emo che carica come immagine di copertina di Facebook un’immagine a scelta tra il già citato Submarine, Eternal Sunshine of the Spotless Mind o qualcosa di Wes Anderson. Tale caratteristica fa sì che la visione, nei primi quattro episodi, sia accompagnata da una costante perplessità sulla sincerità dell’operazione che appare, al contrario, premeditata e studiata a tavolino finanche nella selezione musicale. Quest’ultima infatti insegue in modo vuoto vezzi di certa cinematografia indie (Voilà, cantata da Françoise Hardy, che fa tanto nouvelle vaghezza) con brani che accompagnano senza commentare. A dimostrazione di quest’osservazione ci viene in soccorso la scena in cui James e Alyssa ballano nella casa del professore: nella graphic novel il brano è Frankie e Johnny, una classica storia d’amor fou (cantata, tra gli altri, da Elvis Presley e Johnny Cash) tutt’altro che a lieto fine e che finisce con l’essere quasi un infausto presagio, mentre nella serie i due danzano sulle note di Settin’ the Woods on Fire del mito country Hank Williams, quasi a voler ricordare che, nonostante l’ambientazione British, la graphic novel è stata disegnata a Hancock, Massachusetts.

Dicevamo dei primi quattro episodi, perché il quinto si rivela essere un giro di boa non solo dal punto di vista strutturale ma anche emotivo. Non è escluso che questa porzione di racconto sia altrettanto premeditata, ma apparentemente i toni sfumano in un romanticismo più sincero, che conquista l’animo dello spettatore fino al finale che qui è aperto (per evidenti ragioni di marketing), diversamente dalla graphic novel che, ricordiamolo, inizia con due pagine in cui troviamo le prime due parole del titolo, una per pagina: THE END.

Autore: Rosario Gallone
Pubblicato il 23/01/2018

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