Space Dogs
Il documentario di Kremser e Peter devia dal predefinito e ridimensiona lo sguardo antropocentrico per uscire dal cinema e trovare un primo sguardo.

Nello spazio non c’è prospettiva, non c’è punto di fuga. Il campo di Space Dogs che inquadra l’atmosfera spaziale, il nero galattico sterminato senza direzioni e senza coordinate, è un campo che non è organizzabile dalla prospettiva e quindi non appartiene all’uomo: la prospettiva è l’unità di misura dello sguardo dell’uomo, sempre teso a "prospettivizzare" il visivo per renderlo visibile, comprensibile, misurabile, vivibile. Proprio perché la prospettiva non può nulla nel luogo spazio, questo luogo a-prospettico è la casa designata per la riflessione sui limiti, sulle condizioni, sui modi dello sguardo umano, e quindi, per quanto paradossale possa sembrare, anche l’ambientazione d’elezione per una riflessione tutta terrestre, in termini di riferimenti spaziali, sullo sguardo della specie umana rispetto alle altre specie: la sospensione delle possibilità (cioè del poter-fare, del produrre, dell’utilizzare tecnico) dello sguardo umano provocata dallo spazio extra-terrestre schiaccia lo sguardo su se stesso, problematizza la sua tranquillità verso i referenti abituali e lo incastra in uno spazio disabituale e disabitato, quello del mondo non umano non solo in quanto spaziale, ma anche in quanto animale. Perché non è solo il luogo spaziale lontano e alto a essere extra-umano ma anche il luogo animale vicino e basso a essere fuori dalla cornice dello sguardo dell’uomo: i due luoghi, i due mondi, coincidono perché condividono la qualità dell’a-prospettico, una costituzione non-umana che non è strettamente rappresentabile in quanto non originata dalla dimensione dello sguardo umano.
Dov’è il posto del cinema in questa equazione? Qual è la sua possibilità, cosa può fare come rappresentazione di fronte all’inalienabilità di questi due spazi irrappresentabili? Per rispondere alla domanda il cinema deve rilevare il problema dell’irrappresentabile, quindi problematizzarsi in quanto rappresentazione umana limitata e poi dissolvere la questione e il suo limite in una nuova e più consapevole struttura formale: siccome non può semplicemente annullarsi, deve rendere produttivo il suo negativo, il limite che la costituisce, trasformandolo in un positivo attivo, in una de-limitazione creativa. Il processo non è semplice, perché il cinema deve uscire da se stesso attraverso se stesso per guardarsi e il cinema è legatissimo all’animale non umano, anzi, si può dire che le prime dimostrazioni di cosa possa fare il cinema, di che cosa sia il cinema, provengano proprio dall’uso dell’animale come immagine – si pensi agli esperimenti di Muybridge e Marey sulla logica senso-motoria del mezzo fotografico. Il cinema nasce quindi idealmente da un’idea di rappresentabilità del movimento dell’animale e paradossalmente si scopre limitato proprio per questa idea: per uscire da sé deve annullare questo sguardo costitutivo sull’animale come prova del senso motorio e scoprire in esso un’irrappresentabile che lo delimiti.

Space Dogs è costituito all’interno, nel corpo cavo sotto la sua superficie compiuta, dal dissolversi dei problemi della rappresentazione in una forma nuova, che ha ri-compreso se stessa: nel documentario di Kremser e Peter si rintraccia il susseguirsi di queste dissolvenze che bruciano dentro all’immagine come problema, la scorticano e infine producono, perché conducono fuori da essa, un qualcosa di originale ma anche di originario, un primo vedere, uno slancio vitale che a posteriori si può dire pensiero, ma al momento sembra essere soprattutto solo movimento. In questo movimento è sciolto un passaggio dialettico che è quello espresso sopra: il rilevamento dell’irrappresentabile a-prospettico e il dissolvimento di questa consapevolezza in una nuova forma. Space Dogs interpreta questo passaggio obbligato per prima cosa sospendendo i referenti prospettici dello sguardo umano, aprendosi in una scena senza coordinate. Inquadrato, per quanto possibile, è lo spazio extra terrestre, in un’elevazione galleggiante a cui comunque non manca un senso strettamente narrativo – è l’evocazione della tragica storia di Laika.
Nell’apertura allo spazio il film annuncia il totale disorientamento delle figure prospettiche e così dello sguardo spettatoriale, che è appunto sganciato dalle sicurezze della rappresentazione e lasciato nel vuoto. Lo sguardo è in questo momento non sguardo della cosa messa in prospettiva ma sguardo soltanto. Quando il film poi effettivamente comincia, con il pedinamento di cani randagi di Mosca – contrappuntato dalle sequenze sulla festa con la scimmia sfruttata e sulla camminata reinquadrata della tartaruga, e dai materiali di repertorio sui cani mandati nello spazio – lo sguardo resta disorientato perché dalla sfera non umana spaziale si è passati alla sfera non umana terrestre: la macchina da presa che insegue i randagi è tenuta all’altezza dei cani, il mondo è visto alla loro altezza, al loro passo, dalla loro prospettiva. La rappresentazione si costringe a una reinterpretazione della visione del mondo, e quindi di sé, e si allunga in una proiezione dell’inesplorato in cui è questo, l’imprevedibilità sempre deviante del mondo nuovo, a informare la rappresentazione e non viceversa: il solo sguardo, la sola visione, non produce oggetti, siccome il concetto di oggetto scompare, ma diventa progettato dal nuovo mondo, pro-gettato all’inseguimento di questo mondo che sfugge in avanti, rallenta, si ferma, guarda all’indietro, guarda chi guarda ridescrivendo lo sguardo.
Questo ripiegamento dello sconosciuto si sente particolarmente nella scena più celebre del film, quella dell’uccisione da parte di uno dei cani di un gatto. In questa scena – che, a differenza delle altre, non è avvenuta sotto il “controllo”, per quanto limitato, della regista e del regista - la sospensione dei referenti prospettici diventa sospensione dei referenti morali: di fronte all’azione dell’animale è necessario sospendere la morale, entrare in una sfera extra morale. La moralità dello sguardo, che giudica l’atto dell’animale come sbagliato o violento, è sospesa, disorientata, perché non si applica e non può applicarsi a questo mondo: la morale è un costrutto non naturale, l’etica è originaria dell’umano e per questo le sue categorie non possono spiegare o giudicare un evento non umano. Il confronto con l'altro, così lontano dalle costruzioni rappresentative e in particolare dall’antropomorfizzazione con cui ci si misura rispetto agli animali (la trasfigurazione antropomorfa pervasiva che comporta l’eclisse dell’animale come altro è la misura standard della rappresentazione animale), causa una forte problematizzazione dello sguardo umano e una sospensione dell’etica. Non c’è forse altro modo per consegnare la rappresentazione a un limite invalicabile che mostrare la sospensione della rappresentazione migliore: in questo caso la rappresentazione migliore è quella etica, cioè quella che si sospende e riconosce l’alterità completa dell’animale. Alterità incomprensibile.

Nella misura in cui l’altro è davvero altro, lo sguardo di fronte all’altro è una possibilità di incontro e non un prolungamento del sé: la distinzione tra soggetto e oggetto, in cui l’oggetto è oggetto da utilizzare, utensile in prospettiva d’uso o prospettiva comprensibile, non è più l’orizzonte in cui si inscrive la visione. La sospensione, cioè il disorientamento, dello sguardo non è però l’unico momento costitutivo del film, perché come si diceva il limite è reso produttivo, non porta all’annullamento ma alla trasfigurazione della rappresentazione, al suo riorientamento. Questa trasfigurazione è opposta a quanto si vede nelle scene d’archivio che raffigurano gli esperimenti sui cani mandati nello spazio e nel racconto sulle tartarughe lanciate in orbita: mentre in queste scene gli animali sono ancora oggetti idealizzati, utilizzati in nome del progresso scientifico per scopi umani (progresso che si pone in contrasto con la natura mitologica dell’animale, con il precipitato iconografico divino, come nel caso della tartaruga, che si pensava sostenesse il mondo) nelle ultime sequenze del film lo sguardo antropocentrico e prospettico disorientato viene riorientato dalla consapevolezza del suo limite. Questo processo concettuale è dissolto in una soluzione formale, in uno zoom che lentamente trasforma un campo lungo ad altezza umana in cui una tartaruga al centro è quasi invisibile in un campo dominato dalla tartaruga stessa: nel processo in cui lo sguardo spettatoriale si trasfigura di metro in metro, è ridefinito, ri-formato.
Se in questa scena si squaderna il senso estetico, sensibile, scopico, dell’esperienza di trasfigurazione, nel finale del film si sente il contraccolpo etico di una rappresentazione che si è annullata per riformularsi: perché nella ultime scene in cui dei cuccioli di cane vengono uccisi da un mondo disabitato e avvelenato, in cui solo uno di loro sopravvive, ultimo e primo assieme, e compie pochi passi nel mondo di fronte a sé, si sente il peso tragico della storia dell’annullamento di un'alterità, la storia di una sopraffazione (quella degli “space dogs”, riletta tramite il segno vittima dei cani randagi abbandonati), e l’interrogarsi del cinema di fronte a essa, l’interrogarsi sul proprio ruolo di partecipazione in questa storia tragica di sofferenza e rappresentazione di questa sofferenza. Un interrogarsi dello sguardo cinema che prende la forma paradossale dell’uscita da sé attraverso se stesso, in una continua proiezione, come si scriveva, disorientata, sospesa, quindi aperta, gettata nel mondo, e poi formata da questo mondo, attraversata da esso, prima di essere di nuovo visione.