Yi Yi – e uno… e due…

di Edward Yang

La Taipei Story del ventunesimo secolo cerca l’uomo tra i detriti e i palazzi di vetro, rivelando la sua natura di disperato atto d’amore.

Taipei, microcosmo e metonimia di una modernità irrappresentabile, allucinata: l’eterno ritratto di Edward Yang ad un soggetto che ha continuato a rielaborare, arricchire e stratificare nel corso di un’intera carriera. Yi Yi - e uno... e due... è l’ultimo ambiguo omaggio alla sua musa urbana, la sintesi impossibile di un’opera priva di confini coltivata nel corso di una intera carriera, in un’affascinante tassonomia dell’umano all’alba del ventunesimo secolo.

Premiato per la migliore regia al Festival di Cannes del 2000, Yi Yi racconta la vita di una famiglia allargata nel periodo di tempo compreso tra un matrimonio e un funerale. Nel mezzo, emergono le storie della classe media urbana, fragile e incapace di trovare un ruolo nella Taipei rumorosa e inerte che li accoglie.

Il padre di famiglia, con difficoltà lavorative e umane, riscopre un vecchio amore ed è incapace di venire a patti con il passato; la moglie si ritira in un convento, in fuga dalla complessità dei dolori famigliari e delle sofferenze sociali; i due figli maturano e crescono in un mondo di adulti assenti e incapaci di dare loro una direzione, affrontando riti di iniziazione privati e dolorosi. E ancora, amici, colleghi, rivali e amanti. Un intreccio ricchissimo e caleidoscopico a cui nessun resoconto farebbe giustizia: Yang ci ha abituato a complessità romanzesche nei suoi film precedenti, e Yi Yi prosegue e approfondisce la stessa via al grande affresco storico. Questa volta, le armi del grottesco e del comico sono meno affilate, in favore di un registro elegiaco e fondamentalmente tragico.

Yi Yi è cinema in sé conchiuso, che fonda sé stesso e la propria ontologia: un mondo parallelo, modellato in base al nostro e nel quale specchiarci, capace di vita propria e problematico da abitare – come ogni vero luogo dell’arte che non sia mera lusinga o promessa di piacere. Il mondo di un romanzo, certo; eppure, i pilastri stessi dell’edificio romanzesco sono corrosi dall’acuta consapevolezza che la narrazione, oggi, sia possibile solo in forma ibrida e meticcia. Yi Yi non è una storia né uno specchio del mondo, ma una superficie problematica che interroga il mondo (il film è pieno di specchi, riflessi e angoli di ripresa obliqui). Michel Foucault l’avrebbe definita come un’eterotopia: un luogo altro, un’isola dell’immaginario da cui osservare e rendere pensabile Taipei e il mondo che la rende possibile. A differenze delle utopie (e dell’escapismo cinematografico, e del cinema d’autore senz’anima), “le eterotopie [...] inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi” [1].

Il mare di parole e il proliferare di comunicazione tra i personaggi è, in effetti, una resa alla complessità: il mondo non si può raccontare, racchiudere o semplificare nella beata illusione del cinema. Eppure, il cinema resiste: nel caleidoscopio delle storie, nel balbettio del linguaggio come pura forma e affezione, nella ricerca dell’uomo nella selva dei suoi simulacri. In questi frammenti di ottimismo, l’autore trova il suo umanesimo e la sua speranza per una nuova storia e una nuova cultura che faccia fronte alla cancellazione del passato e della Cina in cui è nato e cresciuto.

Yang è un regista profondamente legato alla cultura tradizionale cinese. Nato in una Cina ancora unita e poi divisa tra imperialismi, dominazioni e flussi culturali tra loro incompatibili, è il figlio di una ferita insanabile. Ciò si riflette nella sua lettura di Taiwan, fortezza assediata e costretta a reinventare continuamente un’identità impossibile attraverso culture e sguardi esterni. Isola incapace di insularità, strattonata dalle muse dell’Occidente e dalle bambole giapponesi. Si può rintracciare la stessa ossessione in autori come Hou Hsiao-Hsien, ma anche nei maggiori registi di Hong Kong, altra nazione fantasma. E chi meglio dei fantasmi può giudicare e comprendere il secolo degli schermi e dell’iperreale? Tecnologia e natura, cultura tradizionale ed imperi digitali danno forma all’affresco del presente. Il relativismo delle identità e dei punti di vista permette a Yang di scavare più a fondo di molti colleghi occidentali contemporanei. I veri eredi di Rossellini e Antonioni, gli autori più liberi delle maniere stilistiche e dalle confusioni concettuali, sembrano essere a Oriente.

Per dare corpo alle assenze e ai fantasmi, Yang adotta con grande intelligenza l’arma della scenografia: gli spazi interni ed esterni sono costruiti per aprire distanze e permettere connessioni fuggevoli e limitanti. Osservazione non partecipante, se non in rari strappi di emozione e agnizione. Prolissità punteggiate di ellissi diegetiche ardite, lunghe discussioni attorniate da grandi silenzi. E poi, i vuoti tra i personaggi, o tra personaggi e oggetti

Come ha scritto Jonathan Rosenbaum a proposito di un altro film di Yang (A Brighter Summer Day, 1991), i protagonisti dei suoi film si trovano spesso a contatto con oggetti, o “artefatti”, viatici di una messa in discussione radicale dell’identità [2]. Il rapporto del giovanissimo Yang-Yang con la macchina fotografica ne è un esempio: il bambino impara ad osservare e comprende che il mondo permette solo mezze verità. Torniamo ad Antonioni, a Blow-Up e a The Terrorizers, l’opera più radicale e disperata di Edward Yang. L’immagine fotografica si fa protesi percettiva, tentativo di superamento della confusione e del rumore.

Yi Yi, come la migliore poesia, può essere osservata da infiniti punti di vista senza perdere la capacità di creare significati e produrre conoscenza. Attraversando questa ambigua eterotopia, torniamo al mondo con una percezione diversa e allargata. L’obiettivo del cinema di Yang è quanto mai esplicito: si tratta di “far vedere agli altri quello che non riescono a vedere”. Perché dell’uomo e della sua anima non sappiamo ancora niente, come dichiara uno dei personaggi del film, imprenditore nel mondo dei videogiochi: con una migliore comprensione dell’uomo si potrebbero fare videogiochi migliori.

Nessuno sa quello che vuole, chiosava uno dei protagonisti di un altro grande film di Yang, Mahjong (1996). Il mondo è uno specchio incrinato e il futuro della civiltà occidentale prospera, oggi, nel cuore di Taipei. La Taipei Story del ventunesimo secolo cerca l’uomo tra i detriti e i palazzi di vetro, rivelando la sua natura di disperato atto d’amore.

[1]M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane.

[2] http://www.chicagoreader.com/chicago/exiles-in-modernity/Content?oid=894839

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 10/02/2015
Regia: Edward Yang

Articoli correlati

Ultimi della categoria