That Day on the Beach
Tutto è incluso nel potere del tempo che, come dice il fratello sul letto di morte, si lascia ogni cosa alle spalle, e poi nel movimento della vita, confuso, impercettibile, avvolgente e alienante.

Tra le tante sequenze indimenticabili del capolavoro Yi Yi, prematuro testamento artistico del mai abbastanza ricordato e celebrato Edward Yang, ce n’è una che sintetizza in maniera decisiva il cinema del suo autore: ci riferiamo al dialogo al ristorante tra il protagonista ed un potenziale cliente giapponese, in cui il secondo espone all’altro il suo punto di vista sull’esistenza. “Perché ci spaventa l’idea della prima volta? Ogni giorno nella vita è una prima volta. Ogni mattino è nuovo. Non viviamo mai lo stesso giorno due volte. Non siamo mai preoccupati quando ci svegliamo la mattina. Perché?” Quella che potrebbe essere vista come un’invenzione di scrittura brillante, assume, alla luce della filmografia di Edward Yang, contorni molto più ampi e significativi. In quanto dichiarazione di poetica, ovviamente, ma anche e soprattutto come punto di arrivo di una carriera contraddistinta dall’osservazione minuziosa e profondamente umanista dell’esistenza, colta nel suo lento fluire, in cui tutto si tiene assieme ed ha la stessa importanza, perché partecipa in egual misura al suo racconto.
In questo senso non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo dell’esordio di Yang datato 1983, That Day on the Beach, che sembra contraddire quanto espresso fin qui, sancendo una gerarchia di valori. Chiaramente Yang non nega ci siano momenti più importanti di altri. E quello a cui si riferisce il titolo lo è certamente, in quanto legato alla misteriosa scomparsa del marito della protagonista, Jia-li, forse suicidatosi in mare oppure morto accidentalmente, portato via dalla corrente. Le testimonianze così come le prove sono contraddittorie. Eppure, nonostante il ricordo di quel giorno ritorni più volte, non costituisce né il presente della narrazione, spostato tre anni più avanti, né tanto meno il baricentro emotivo del film, che al contrario del suo titolo, così preciso, anche geograficamente per lo spazio che evoca, sembra voler perdersi in quanti più momenti possibili nella vita della sua protagonista e di alcune persone che ne hanno accompagnato per lunghi o brevi tratti l’esistenza.
Dicevamo del tempo narrativo. Il presente da cui tutto prende avvio coincide con l’incontro in un bar tra Jia-li e una sua amica di vecchia data, divenuta nel frattempo un’importante pianista. A partire dal dialogo tra le due emergono decine e decine di ricordi, pescati nella terra straniera del passato. Ripercorriamo le principali tappe di emancipazione di Jia-li dall’opprimente contesto familiare, in particolare dalla figura paterna, che vorrebbe controllare il destino dei propri figli, riuscendoci solo in parte, ovvero con il fratello di lei, costretto ad accettare un matrimonio combinato. Ed è proprio la prospettiva di una vita già scritta a far fuggire Jia-li, spingendola tra le braccia di Dei-Wei, ragazzo semplice conosciuto all’università. Il racconto della storia d’amore tra i due rappresenta senza dubbio la sezione più importante del film, non solo in termini di durata, ma anche perché permette al regista di affrontare le contraddizioni del proprio tempo, che all’epoca coincidevano con l’avanzare del capitalismo yuppies, scandito da maratone in ufficio e da lunghe cene di lavoro goderecce. Le scene da un matrimonio di Edward Yang muovono dalla dimensione privata del rapporto a due, fatto di asprezze e confronti dolorosi, allo sguardo allargato sul mondo del business che minaccia la relazione, incrinando ogni equilibrio. Almeno fino alla misteriosa scomparsa di Dei-Wei, che pone termine alle ostilità, sancendo l’altra grande emancipazione di Jia-li, che nel tempo diviene donna in carriera. Una donna perfetta, come la definisce la sua amica pianista, dedicandole il suo ultimo pensiero prima dell’uscita di scena.
Visto così il film sembrerebbe quasi il prodotto di un manuale di sceneggiatura, con la definizione di un percorso rigoroso e accidentato che porta la protagonista a cambiare, maturare, crescere. Ma That Day on the Beach è molto più di questo. Ne è la versione espansa ed esplosa. Coincide solo la destinazione, mentre cambia completamente la traiettoria. Ad ogni evento non corrisponde necessariamente un passo in avanti. Al contrario, il regista cerca spesso linee di fuga che portino il film altrove, che sia in una serie di ricordi a loro volta custodi di altri ricordi, ancora più lontani (pensiamo ai piccoli momenti dedicati all’infanzia di Jia-li), oppure nei tanti cambi di prospettiva, da Jia-li alla sua amica pianista, dal padre di Jia-li al fratello. Tutto è incluso nel potere del tempo che, come dice il fratello sul letto di morte, si lascia ogni cosa alle spalle, e poi nel movimento della vita, confuso, impercettibile, avvolgente e alienante. Il magnifico film di Edward Yang si colloca negli interstizi dell’esistenza. Descrive parabole lunghissime,concentrandosi sui dettagli, sui piccoli scarti. Senza la presunzione né di voler esaurire ogni discorso, di essere esemplare ad ogni costo né tanto meno descrivendo una banale poetica del quotidiano. Più che il compimento di un percorso, gli sta a cuore la messa a fuoco dei sentimenti e delle emozioni, per quanto dolorose o contraddittorie possano essere. Quel giorno sulla spiaggia era stato anche un giorno felice.