Dossier Steven Spielberg / 7 - E.T. L'extra-terrestre

Ombre cinesi aliene sulla Luna

Un’astronave aliena atterra in un bosco della California per compiere dei rilevamenti: l’arrivo sul luogo di alcuni scienziati terrestri, però, sconvolge i piani degli osservatori galattici e li costringe a ripartire immediatamente, lasciandone inavvertitamente uno di loro che prima di tornare a casa lascerà un segno indelebile nelle vite di chi incontrerà. Oltre ad essere una possibile sinossi dell’inizio di E.T. L’extra-terrestre, quest’incipit potrebbe benissimo essere interpretato come una parabola dell’iter dell’emozione cinematografica, della missione stessa del film, o quantomeno l’emozione scaturita da un certo tipo di cinema, quello che a noi interessa in questo momento.

Il breve susseguirsi di fatti elencato all’inizio di quest’analisi sembra infatti già contenere in se una sintesi estrema della dinamica che dà origine all’esperienza spettatoriale. Magia, questa, costituita di presenza e assenza, sostanza e vuoto, che agisce al contempo effimera e seminale sullo spettatore, facendolo regredire o, talvolta, innescando un rifiuto (come scrive Kracauer "le immagini filmiche colpiscono in primo luogo i sensi dello spettatore, impegnandolo fisiologicamente, prima che sia in grado di reagire intellettualmente").

Un’ astronave da un altro mondo (il film) arriva sulla Terra (il cinema) vi deposita un "seme" (il germe dell’emozione, la chiave d’accesso al mondo sconosciuto), viene disturbata dagli scienziati terrestri (incarnazione del "risveglio", della spinta contraria all’abbandono, della razionalità spettatoriale) e prima di concludere il suo percorso lascia qualcosa nel cuore di chi è pronto ad accoglierlo e lasciarlo germogliare.

E.T. che poggia il dito luminoso - in quest’ottica, quasi un piccolo proiettore - sul petto di Elliot mentre pronuncia la frase "io sarò sempre qui" è il punto di contatto tra due mondi destinati a sfiorarsi senza potersi mai fondere del tutto, è l’emblema di questa compenetrazione impalpabile, dell’incontro magico tra spettatore e film, o del suo contrario. Perché dall’incontro con il fantastico si può uscire come "Elliot" o come uno degli agenti che, ansiosi di spiegare, sezionare e razionalizzare, rischiano di uccidere E.T.

Da quest’incontro si può quindi uscire cambiati, forse addirittura salvati, visto il caleidoscopio di riferimenti messianici su cui Spielberg erige la struttura del film, o respinti.

Il sinonimo di alieno, "extraterrestre", in E.T. L’extra-terrestre fissa dunque la sua caratteristica doppiamente peculiare: si tratta di una forma di vita (ma qui siamo più vicini all’incarnazione di un concetto, di un’idea) che ha origine non solo al di fuori del nostro pianeta ma anche al di la del nostro contesto emotivo e percettivo ordinario.

I parametri che permettono di enucleare i tratti distintivi dell’alieno dipendono dal grado di alterità rispetto all’umano, generalmente adulto, cioè dai modi in cui il personaggio realizza l’estensione ontologica delle forme di vita. Ecco perché Elliot, e i bambini in generale nel cinema di fantascienza, da Explorers di Joe Dante fino a Super 8 di J.J. Abrams, sono predisposti all’accettazione dell’altro, all’incontro con l’ignoto.

Il processo identificativo che il film costruisce non implica però la costruzione di un’identità che viene rafforzandosi, ma qualcosa di assolutamente diverso.

L’identificazione non è una scoperta di un’identità profonda che magari era nascosta, ma un rapporto con l’altro. E.T., in quanto emblema della creatura/macchina identificativa, crea rapporti con varie alterità e produce meccanismi di relazione con l’altro, non emergenze dal profondo. Anche quando l’identificazione spettatoriale scorge nel personaggio qualcosa che lo connette al suo mondo, non afferma un’identità ma semmai una relazione.

In E.T. L’extra-terrestre la relazione con l’altro è inoltre sempre meccanismo di completamento più che di compensazione: l’intero film è percorso da complesse e simmetriche geometrie triangolari che dipanano in modo particolarmente intenso le tematiche del padre assente e della ricerca di appartenenza familiare. Cifra spielberghiana (tra le molte) è non a caso quella riconducibile alla ritualità intrinseca in ogni sua opera. Ogni film è pieno di cerimonie, riti di passaggio, attraversamenti di soglie e frontiere fisiche e metaforiche.

Viaggio spirituale, terapia d’urto ed inno alla trascendenza bambina e guaritrice, E.T. L’extra-terrestre è la celebrazione del gioco attraverso cui Spielberg grida a pieni polmoni come l’immaginazione sia la funzione imprescindibile dell’esperienza. Richiamando velocemente alla memoria la sequenza del film in cui E.T. viene nascosto in bella vista tra dei giocattoli per non farlo scoprire dalla madre di Elliot sembra utile riportare alcune considerazioni di Gianni Rodari sul gioco che sembrano essere scritte appositamente per parlare di E.T.: "Il mondo dei giocattoli è [...] un mondo composito. Tale è anche l’atteggiamento del bambino verso il giocattolo. Da un lato egli obbedisce ai suoi suggerimenti, imparando ad usarlo per il gioco cui è destinato, battendo tutti i sentieri che esso offre alla sua attività; da un altro lato, egli lo usa come mezzo per esprimersi, quasi incaricandolo di rappresentare i suoi drammi. Il giocattolo è il mondo che egli vuole conquistare e con il quale si misura [...] ma è anche una protezione, un prolungamento della sua persona".

La partenza finale di E.T. da luogo ad uno "spazio transizionale " - come viene chiamato dal pediatra e analista Donald Winnicott - in cui Elliot, e lo spettatore con lui, si sposta verso una realtà oggettiva condivisa, senza esserne traumatizzato. L’esperienza transizionale permette inoltre lo sviluppo della capacità di vivere nella realtà oggettiva riuscendo a conservare comunque il nucleo originario dell’onnipotenza soggettiva (tipica del soggetto-bambino), che permette l’espressione dell’originalità e delle passioni. La pratica ludica (e che cos’è la fuga dagli agenti in bicicletta se non un gioco preso, come dovrebbe essere, molto sul serio?) sempre secondo Winnicott, è un’esperienza vissuta in una continuità di spazio-tempo, una modalità fondamentale del vivere, intermedia tra le cose concepite e quelle percepite. In sostanza, la creatività nel gioco, la capacità di muoversi agilmente tra mondi diversi - motore di buona parte della filmografia di Spielberg, senza necessariamente pensare al suo lavoro sul "fantastico" -è intesa come modalità di guardare e percepire il mondo esterno.

"Io sarò sempre qui...", ribadisce E.T., per fortuna. Teniamolo a mente.

Autore: Tommaso Di Giulio
Pubblicato il 11/11/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria