Dossier Steven Spielberg / 25- Lincoln

Il neoclassicismo di Spielberg allo stato dell'arte, una profonda riflessione sul Potere inserita all'interno del rapporto tra l'identità di un paese e la sua immagine costitutiva

Partiamo dalle parole e dal linguaggio, e dal racconto che il potere fa di sé stesso.

Sull’onda del successo incontrato negli Stati Uniti dall’analisi strutturale del racconto – quella che con Todorov assume il nome di narratologia – la scienza politica americana ha subito un forte processo di narrativizzazione, un cambio di baricentro che ha visto venir meno il ruolo dei dati e delle cifre concrete a favore invece dell’aneddoto, del racconto. Appropriandosi dei concetti della critica letteraria degli anni sessanta, gli spin doctors americani hanno riplasmato la loro attività mistificante sul nuovo fenomeno crescente dello storytelling, della resa in racconto, trasformando ogni loro candidato nell’eroe protagonista di una storia, di un mito, e facendo della campagna elettorale uno scontro non di idee ma di racconti e aneddoti edificanti, atti a trasporre ogni identità sul piano dell’immaginario collettivo. Una pratica – quella di fabbricare storie al fine di conquistare ed esercitare il potere – che gli studiosi fanno risalire a Ronald Reagan, visto come il primo grande narratore della politica americana, il primo presidente a governare a colpi di aneddoti. Tenere presente ciò aiuta ad avvicinarsi alla comprensione – per noi non americani – dell’importanza e dell’impatto avuti dal 16° Presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln, che già cento anni prima del suo lontano successore repubblicano aveva costruito la propria azione politica non solo sull’oratoria ma, appunto, sul racconto, sull’aneddoto, sulla storia. Ci aiuta a percepire come Lincoln sia, nel bene o nel male, uno dei nuclei d’origine del paese come è oggi, uomo che contiene in nuce – in sé e nelle sue anche controverse azioni – il destino contradditorio del proprio popolo; un punto di partenza di discorsi di potere che stratificati e mutevoli attraversano tutta la storia fino ad arrivare alle amministrazioni a noi più vicine. Parlare di Lincoln significa parlare dell’oggi, interrogarsi sulla propria natura passata per ristabilire un’identità nel presente.

Data la statura del soggetto, Steven Spielberg decide quindi di riprendere la strada artistica tracciata con lo splendido War Horse, intavolando un discorso atto a restituire (molte) luci e (poche) ombre della presidenza più famosa della storia, in una mimesi storico-cinematografica intenzionata a riprendere la lezione del cinema classico hollywoodiano. La riflessione sulla propria identità in quanto paese e comunità costituente passa per un confronto diretto con il proprio patrimonio iconografico, in un confronto alimentato dalla consapevolezza del rapporto privilegiato e fondante che gli Stati Uniti hanno (avuto?) con l’immagine cinematografica. Lincoln così rappresenta il ritorno del grande racconto, l’ambizione di un impianto narrativo solido all’interno del quali ogni elemento formale si carica di senso. Quello in atto nel corso del film è uno studio atto a rendere significante ogni postura e luce, ogni piano e taglio dell’immagine, in un respiro espressivo che rivitalizza la tradizione cinematografica della vecchia Hollywood con la più vivida e intensa forza drammatica.

E’ sufficiente un solo fotogramma a palesare come Lincoln voglia essere un film illuminista; quella splendida dissolvenza incrociata tra il cuore della fiamma e la sua figura in piedi fra la gente, a creare un legame cristallino tra il genio del Presidente e la luce della ragione. Infinite non a caso sono le inquadrature nel film studiate in relazione alle fonti di illuminazione, scene costruite in interni la cui geometria viene ridefinita, plasmata, determinata dai tagli effettuati dalla luce nell’oscurità, in una dialettica visiva che si fa controparte sensibile di quella lotta tra il singolo e il sistema, tra l’etica luminosa di morale e la corruzione e l’ignoranza più avviluppanti. Altra scelta di messa in scena orizzontale, che attraversa anch’essa tutta la narrazione, è la volontà di porre queste fonti di illuminazione quasi sempre fuori campo, negate allo sguardo, dietro le fila come è anche, quasi sempre, Lincoln stesso. Lincoln è infatti un film sulla solitudine del potere, e in quanto tale il suo interesse non ricade nelle commemorazioni e nei discorsi, tanto che nei pochi rappresentati la figura del Presidente si perde nella massa, confusa nei corpi del popolo; no, l’obiettivo del racconto di Spielberg (non a caso scritto dal Tony Kusher autore di Munich) è mostrare gli ingranaggi meccanici che risiedono tanto dietro l’azione politica quanto dietro quella umana. E’ per questo che in Lincoln ha così grande importanza l’ambiente famigliare del Presidente, ritratto in tutte le sue tensioni ed idiosincrasie. E’ per questo che la sua figura, quando non resta confusa nella massa, si staglia spesso in luoghi solitari, in quadri di mondo ritagliati dall’azione e nei quali il Presidente si sofferma paziente, in attesa della Storia. Non a caso il film si apre con una battaglia straordinariamente cruenta, un irrompere di violenza a cui seguono altri soldati in scena, e sarà a loro che spetterà il compito di recitare il discorso più famoso, quello di Gettysburg, mentre lui, ingobbito e avvolto in una lanuginosa coperta, viene introdotto di spalle con un sommesso carrello all’indietro, uditore prima che proclamatore, spettatore prima che attore. E’ questo uno dei tanti motivi per cui l’interpretazione di Daniel Day-Lewis è ancora una volta, letteralmente, stra-ordinaria; perché in quel passo ingobbito e ciondolante, in quella voce bassa e sommessa, vive un uomo che pare attraversare invisibile la Storia pur essendone tra i plasmatori.

Fondato sul confronto politico e sul potere che in esso ha la parola, Lincoln è il terreno di scontro tra l’idealismo e il cinismo, tra la purezza del sogno e la lordura della sua messa in atto, dialettiche che Spielberg decide di scogliere mettendo in scena una lezione storica su come anche il più abile e benevolo dei governanti sia costretto ad interfacciarsi con la politica nella sua accezione più utilitaristica e schietta, fin’anche a travalicare il proprio ruolo esecutivo in una illegale intromissione nel piano legislativo. Un’invasione, per stessa ammissione di Lincoln, permessa dagli autoconferiti poteri speciali in tempo di guerra, poteri tali da ignorare le direttive degli altri organi dello Stato e favorire un corso degli eventi favorevole alla propria lotta. Scavando sotto la lacca dorata della presidenza più amata della storia americana, Lincoln svela così come l’emendamento più nobile ad essa attribuito – l’abolizione della schiavitù – sia stato ottenuto attraverso concussione e corruzione, tradimenti e pressioni, palesando tutto il grasso e lo sporco di cui sono imperniati gli ingranaggi della politica. Al contempo però Spielberg ci ricorda che per quanto passi tra mani putride la gestione della cosa pubblica non può né deve perdere la sua lucentezza, e per questo Lincoln è tutto fuorché un film cinico; nella luce espressa ed immortalata nel suo personaggio Spielberg palesa come la forza etica sia l’unico argine a quest’imbastardimento, l’unica guida nel momento in cui ci si avventura nel terreno forse fatale del fine che giustifica i mezzi. In questo senso Lincoln diventa il perfetto esempio di uomo spielberghiano, dedito alla Legge e alle norme che la definiscono ma prima di tutto alla morale che le ha ispirate. E dalla fedeltà a questa morale ricava la forza, anzitutto etica, per travalicare quelle leggi e imporre una volontà individuale atta a correggere la realtà. Individualismo americano e illuminismo europeo si incontrano così in un film che schiva la monumentalizzazione agiografica per approdare piuttosto alla riflessione sui principi profondi che determinano l’identità di una comunità e di un paese. Ma cosa succede quando, tracciato il solco di un’azione esercitata oltre la Legge, viene meno la fiamma della ragione che tale azione aveva giustificato e preservato da un destino di tirannide? Accade quanto forse ritroviamo nell’America di Zero Dark Thirty, o forse, per rimanere nel medesimo contesto storico, negli Stati Uniti di The Conspirator di Robert Redford, per molti aspetti contraltare politico del Lincoln spielberghiano.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 17/03/2016

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