Dossier Steven Spielberg / 14 - Amistad
In Amistad la retorica stilistica si accompagna a una sottile rivelazione tragica, prefigurando un trauma storico ancora irrisolto dal punto di vista linguistico

Uscito due anni dopo Schindler’s List, Amistad, primo film di Steven Spielberg con la Dreamworks, riapre la riflessione sul processo di disumanizzazione che ben prima dell’avvento dell’industria nazista della morte aveva storicamente trovato il suo fondamento nella pratica della schiavitù. La contesa iniziale del film, tratta da una storia vera, è difatti, come la definisce l’avvocato Baldwin (Matthew McConaughey) di mera, pratica natura commerciale: a chi appartengono i più quaranta schiavi neri ritrovati nel 1839 a bordo della nave spagnola Amistad dopo un tentato, sanguinoso ammutinamento organizzato allo scopo di tornare a casa? Alla regina della Spagna? Alla nave che li ha ritrovati? O a nessuno, dato che sono esseri umani?
Se Schindler’s List rimane un punto di riferimento morale ben fermo, lo spostamento storico e geografico dalla Polonia della Seconda Guerra Mondiale a un’America vicina alla guerra civile, comporta in Amistad un cambiamento radicale di registro. Quello che abbiamo ora di fronte è un film fortemente retorico, che indugia in sequenze passionali e drammatiche sottolineando ogni scena quale espressione visiva di una precisa tematica concettuale. Il valore massimamente celebrato qui è la libertà, chiesta dagli schiavi, formalmente garantita dalla Costituzione Americana, una libertà che sembra pretendere per la propria difesa uno stile narrativo sentimentale e magniloquente: se non fosse che lo stesso bel linguaggio della politica, fiorito e appassionato,nel film nasconde interessi ben più materiali.
La contesa puramente commerciale nata all’inizio di Amistad diverrà infatti una battaglia morale, e pertanto politica, dovuta alla totale incompatibilità della schiavitù con una costituzione che afferma la comune eguaglianza degli uomini all’interno di un paese che pur considerato ciò continua al Sud a prosperare grazie al lavoro degli schiavi. Inevitabile vedere allora il film di Spielberg come la prima parte di un discorso, poi continuato con Lincoln,sulla difficile convivenza fra interessi politici e diritti umani. Non che la politica sia un esercizio di per sé disumano, ma solo diviso fra i due poli ideali del film: la vittoria del più forte sul più debole, o al contrario, l’uguaglianza fra forti e deboli.
Lo sguardo di Spielberg sulla propria patria è platealmente autocritico, senza però impedirsi di esaltare quelle idee liberali alla base della sua origine, ed è dunque quando esso si allontana dalla dimensione americana per rivolgersi a quella degli schiavi che il film trova i suoi momenti migliori. La loro fisicità, i loro dialoghi, la loro lettura del mondo americano, l’ incomprensione dei cavilli legali producono le scene più coinvolgenti di Amistad.
Se però l’opera di Spielberg annega nella retorica e nell’eloquenza – si veda il lungo, formidabile discorso finale dell’ex presidente John Quincy Adams (Anthony Hopkins) a favore degli schiavi - lo fa ritagliandosi un posto entro un terreno molto meno rassicurante, che, pure sullo sfondo, non è messo a tacere. Non c’è infatti solo il sequestro e la messa in catena di uomini nati liberi a costituire il dramma del film: ci sono gli schiavi meccanicamente uccisi sulla nave perché troppo numerosi per il cibo disponibile, aneddoto inizialmente ricusato al processo perché considerato inverosimilmente troppo crudele; ci sono gli altri schiavi che comunque sono nati e morranno tali perché figli di altri schiavi (i prigionieri della Amistad possono chiedere la liberazione solo perché non figli di schiavi, e quindi non già proprietà di qualcuno), e c’è, all’orizzonte, la sanguinosa guerra di Secessione Americana. Il “lieto” fine del film è scritto entro un percorso di sangue e violenza che non trova pacificazione nei rari momenti di rivalsa.
Ciò che rimane è soprattutto l’esigenza di raccontare: come ricorda il personaggio di Hopkins, a vincere è sempre “la migliore storia”, pertando Amistad si costituisce come tentativo di trovare – letteralmente, data l’origine straniera dei prigionieri neri – le parole per esprimere ciò che avviene nelle prigioni, nelle stive ricolme di catene, nei mari che mai possono ribellarsi contro chi li colma di cadaveri. Se in tal senso il linguaggio usato in Amistad è così pomposo ed enfatico è possibile ipotizzare varie spiegazioni al riguardo: la distanza temporale dai fatti, che comporta un’idealizzazione dei toni della storia, un tema maggiormente assorbito dalla cultura occidentale, o al contrario, la cronica incapacità di di accostarsi alla ferita americana - ed europea - della schiavitù senza proteggersi sotto uno strato di densa retorica stilistica. La Storia appare allora come un trauma umano su cui di volta in volta il linguaggio agisce diversamente per cauterizzare la ferita degli eventi; ed Amistad sottende, sotto musiche e volti convenzionalmente appassionati, una cicatrice che sembra esigere ancora un trattamento morbido e rassicurante.