Dossier Steven Spielberg / 10 - Hook-Capitan Uncino

La ripetizione di un ricordo perduto

Nell’approcciarmi a Hook – Capitan Uncino ho avuto la tentazione di fare come Ross Sutherland in Stand by For Tape Back Up, passato qualche giorno fa a Torino nella sezione Onde, ovvero andare a cercare il vecchio vhs perso in chissà quale scatolone nella soffitta, e rivederlo così, accogliendo tutte le imperfezioni del supporto, ormai logorato dal tempo, toccando con mano la distanza, prima di tutto fisica, che intercorre tra me e il film. Alla fine non l’ho fatto, forse per pigrizia o forse, ed è difficile ammetterlo, per paura. E se il film non si vedesse più? E se il nastro fosse irrimediabilmente corrotto? Probabilmente è per questo che non attingo dalla mia collezione di vhs, molti dei quali registrati con cura, spesso fuori orario, nel corso dell’adolescenza, coincisa con la formazione cinefila e con la scoperta del mondo, traumatica ed esaltante come lo sono tutte le prime volte.

Non li vedo quei vhs non perché mi sia abituato ai dvd o al computer, e dunque ad una visione più comoda e per certi versi “migliore”, ma piuttosto per timore che tutte quelle cassette, quelle ore, che misurano il tempo di una parte consistente della mia vita, possano essere andate perdute per sempre. Preferisco tenerle lì, sopra la mia testa, su tante mensole bianche che faticosamente continuano a sorreggerle. Mi rassicura l’idea di dormire circondato dai miei ricordi filmici. Mi dà l’illusione di vivere (in precario equilibrio) sulla soglia che separa il me di quindici anni fa da quello che sono oggi.

Insomma, dopo tanto penare (e rinviare) ho deciso di rivedere Hook al computer. E’ tremendamente difficile descrivere le emozioni che hanno accompagnato la visione. E’ stato come fare un viaggio nel passato, ogni immagine, ogni battuta, dalla più significativa alla più scontata o ininfluente, mi ha riportato alla mente aneddoti, ricordi, impressioni. La rabbia e la delusione di Jack per l’assenza del padre; la paura dei genitori quando, tornando a casa, non trovano più i loro figli (e ripetono ossessivamente i loro nomi); i duetti esilaranti tra Dustin Hoffman e Bob Hoskins; la dolcezza, sottilmente erotica di Campanellino/Julia Roberts; il sorriso di Robin Williams; la vertigine del primo volo, associato ad un ricordo felice, il piacere del gioco che si trasforma, nella sequenza della cena, nel trionfo dell’immaginazione.

Hook è un’opera abitata dalla ripetizione. Lo è per quello che racconta, il ritorno di Peter Pan all’Isola che non c’è, ma soprattutto perché richiede ai suoi spettatori di essere visto almeno due volte, con gli occhi di un bambino e poi con quelli di un adulto, ripercorrendo in qualche modo la traiettoria del suo personaggio, ex bambino che non voleva crescere, costretto a fare i conti con il tempo, con il lavoro, con il (nuovo) ruolo di genitore. E questo confronto spinge gli spettatori (soprattutto coloro che sono nati dalla fine degli anni Settanta in poi) a ricordarsi ciò che sono stati – e questo, come abbiamo visto, riguarda anche il rapporto con il cinema, con i vecchi supporti – e dunque ad ammettere una sostanziale ed inevitabile sconfitta. Il film in questo senso va oltre l’esperienza della visione, configurandosi come una sorta di mappa dell’immaginario infantile da riprendere in mano ogni volta che ci sentiamo lontani da quel ricordo al quale vorremmo fare momentaneamente ritorno. Un ricordo che, come abbiamo visto, attiene all’esperienza soggettiva dello spettatore, il quale attraverso le immagini del film ripensa a se stesso quando era bambino oppure a quando vide per la prima volta il film. Tutto questo innesca un processo di immedesimazione nella perdita, nel vuoto che precede e in cui è inscritto il film, ovvero nell’orizzonte perduto di un tempo che non può tornare se non in forme nuove e per certi versi autonome.

La ripetizione che descrive il film è in un certo senso perversa, perché ci nega la traiettoria originaria dalla quale dovrebbe scaturire il ritorno, che a conti fatti risulta così impossibile, anche solo in via indiretta, a causa del fuori campo nel quale è collocata gran parte della storia, in un tempo cioè che precede la narrazione, assimilabile all’opera letteraria. La nuova avventura a Neverland (l’unica che vediamo) costituisce una variazione della prima, senza coincidervi, se non per frammenti. Un ritorno nella differenza che colma solo in parte le zone d’ombra del passato, tracciando piuttosto l’ipotesi di una genitorialità alternativa (e perché no anti yuppies) che faccia tesoro della propria esperienza infantile. Non si può essere esattamente ciò che si è stati, perché, per usare le parole di Paul Ricoeur, quando parliamo di trascorso non intendiamo “[…] solamente vedere nel passato ciò che sfugge alla nostra presa, ciò su cui non possiamo più agire, ma significa anche voler dire che l’oggetto del ricordo reca indelebile la marca della perdita” [1]. La straordinaria malinconia che irradia il film è frutto di questo lavoro sul passato che non può essere riportato alla luce se non come riflesso nel presente, come insegnamento per il futuro. Non si può tornare bambini, ma possiamo ricordarci com’eravamo, attraverso però la soggettività di un adulto, ovvero di chi non lo è più. In sostanza, di chi occupa esattamente la nostra posizione. Oggi.

[1] P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Bologna, il Mulino, 2004, p. 11

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 01/12/2015

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