Dossier Steven Spielberg / 1 - Duel
Nella terrificante opera prima di Spielberg, un thriller a basso costo, si rintraccia il nucleo pulsante di una delle più straordinarie carriere cinematografiche del Novecento.

Il nuovo “sogno” americano, quello immaginato da un cinema scagliato nell’età adulta dalle grandi forze della storia, nasce nei primi anni Settanta. Sono gli anni di incertezza e di tensione che hanno incrinato l’industria dei grandi studios hollywoodiani, permettendo a nuovi talenti di emergere con una forza impensabile in un altro momento storico. Steven Spielberg è uno di questi: Duel è un thriller fulminante e visceralmente potente; al tempo stesso, il film è una cartina al tornasole di rara trasparenza, attraverso la cui filigrana si può leggere un’intera fase di sviluppo della storia americana e del suo medium per eccellenza, il cinema.
Duel è la storia di David Mann, un commesso che sta viaggiando per lavoro. Mann è un uomo qualunque, con un carattere debole e alcune tensioni famigliari. Mentre guida su una strada deserta, si trova davanti una vecchia autocisterna che procede ad una lentezza esasperante: la supera, per poi essere superato a sua volta dall’enorme veicolo. Superato di nuovo il camion, David si ferma a fare rifornimento. Da quel momento in poi l’autocisterna gli darà la caccia come una belva insegue una preda indifesa. Mann, costretto a reagire, contrattacca...
Duel è un crogiolo di suggestioni e di zeitgeist americano. C’è il road movie e ci sono le atmosfere western, campi lunghi e attese, esplosioni vitali e silenzi. C’è l’insicurezza di una nazione e lo sconvolgimento dei ruoli di genere (forse l’aspetto invecchiato peggio, per un pubblico di quarant’anni dopo); ci sono, soprattutto, nuovi influssi creativi e nuove suggestioni: certe inquadrature ardite, una costruzione del personaggio e un tipo di ironia che rimandano al cinema europeo degli anni precedenti. Ironia e voglia di giocare con il cinema si accompagnano ad eleganza ed autoironia: gli scambi telefonici con la moglie sono squarci di leggerezza in un film che toglie il respiro. Un gioco tra registro (cosiddetto) alto e basso, che Spielberg affinerà e riproporrà moltissime volte.
A cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il cinema americano – quello grande, quello dei kolossal e dei grandi nomi – era rimasto indietro rispetto alla realtà che rincorreva e che provava a rappresentare e trasfigurare nei suoi archi narrativi e nei suoi volti divini. Il Vietnam, il Sessantotto, il mondo sempre più complesso avevano compromesso una visione del mondo che prima era, se non unitaria, capace di creare l’illusione di una coerenza di fondo. Una crisi ciclica e sistemica, che succede a qualsiasi sistema cinematografico e che precede un rinnovamento e un rinascimento altrettanto inevitabile. Il cambio di paradigma, negli USA di quegli anni, fu la New Hollywood. Alla vecchia strada della settima arte, che stava invecchiando, se ne accostò una nuova, piena di buche e curve azzardate: era la pista dei nuovi oracoli, del Dennis Hopper di Easy Rider, di Richard Sarafian e di Punto Zero, di Monte Hellman e di Strada a Doppia Corsia. Nuovi registi, con nuovi immaginari e prospettive che guardavano al cinema d’autore e internazionale, hanno rinnovato un’industria dall’interno (come Spielberg stesso: non va dimenticato che Duel, film inizialmente destinato alla distribuzione televisiva, è prodotto dalla Universal) e, più raramente, dall’esterno. Lo studio system era diventato un’industria più liquida e complessa, in seno alla quale registi come Spielberg hanno saputo costruire una “politica degli autori” tutta declinata in senso americano.
Si rintraccia già, in Duel, quella sottile tensione per un allegorico sobrio e mai gridato, che rappresenta uno dei tratti distintivi della poetica del regista di Cincinnati. La parabola del personaggio David Mann è quella di un uomo costretto a cavarsela da solo sulle grandi strade americane, spinto alla ferocia ed alla bestialità come condizione necessaria a sconfiggere il Male senza volto che lo perseguita. Il conducente dell’autocisterna, come è noto, è senza volto e non compare mai nel corso del film: ne scorgiamo solo gli stivali, all’inizio della caccia. L’antagonista è un ammasso di metallo sferragliante che caccia fumo nero da narici d’acciaio. Se si confronta questa rappresentazione con quella del nemico e della minaccia in molte altre opere dell’autore (si pensi a Salvate il Soldato Ryan), si può trovare una traccia di una strategia narrativa ed estetica che darà molti frutti.
Di lì a pochi anni, sarebbe arrivata un’altra minaccia sinistra e senza volto, perlopiù suggerita e allusa: quella de Lo Squalo. L’invenzione del blockbuster e del nuovo intrattenimento di massa era alle porte, e i primi germi di tale rivoluzione copernicana vanno rintracciati proprio qui, nello sporco duello tra una Plymouth Valiant e una terrificante autocisterna Peterbilt 281 sulle vuote, esiziali strade d’America.