Dossier Paul Verhoeven / 6 - Il quarto uomo

Tra cattolicesimo e paganesimo, il periodo olandese di Paul Verhoeven si chiude con la messa in scena del contraddittorio romanzo di Gerard Reve

Totalmente sconosciuto in Italia, causa le forti contraddizioni contenutistiche di natura sessuale e blasfemie religiose perlopiù legate al cattolicesimo, Gerard Reve, romanziere omosessuale, liberale e filo-cattolico, ha da sempre rivolto la sua attenzione sull’argomento legato alla redenzione morale. Nelle trame della sua prosa erotica l’uomo appare legato alla santità dai piaceri carnali, il suo amore terrestre totalmente inadeguato per sublimarsi nell’amore divino ha una valenza ritualistica in grado di unire il sacro al profano, la catechesi alla carne e al sangue in un rapporto sessuale violento. Dopo aver dichiarato il suo liberismo colorato e rivoluzionario, eroicamente sessuale e sessantottino, femminile e tragico, in film come Fiore di carne; dopo essersi spinto così indietro nel tempo, dando immagine ai diari di una prostituta tardo ottocentesca, Kitty Tippel, giovane eroina verhoeveniana che avanza nella sua scalata sociale attraverso i piaceri della carne fondendo la sua ascesa a quella del movimento operaio (una delle opere dichiaratamente più politiche del regista); e dopo aver condotto una disamina del tutto personale nel gusto cinematografico statunitense, si pensi al richiamo ad opere come Grease o a Il Selvaggio, così ben dichiarati nel film Spetters, Paul Verhoeven arriva all’opera di Reve riuscendo a sintetizzare i contenuti già presenti nella sua cinematografia del periodo olandese e definendo i futuri approdi nella realtà produttiva hollywoodiana che lo vedrà come un protagonista assoluto del suo cinema targato anni ’80 e ’90.

E’ sotto il segno (e sogno) dell’omicidio che si aprono i film di Verhoeven. E’ nella disparità che nasce tra verità e finzione, tra desiderio e attuazione, tra volontà e repressione, che nascono le migliori psicosi. Conturbante, manifesto, indicibile, magnetico, raffinato e violento il cinema del regista olandese è uno specchio deformante che mantiene lo spirito caldo alterandone i tratti distintivi. Gerard Reve (Jeroen Krabbé), un romanziere bisessuale e alcolizzato, figlio, padre o fratello del Chinaski bukowskiano ritratto nel racconto di ordinaria follia, Ma voi consigliereste la carriera di scrittore?, dopo essersi separato dal compagno con il quale abita ad Amsterdam, e dopo aver sognato di ucciderlo, si dirige ad una conferenza a Flessinga, località marittima dove conoscerà la bella e letale androgina Christine (Renée Soutendijk). Tormentato da visioni terrificanti che presagiranno i futuri sviluppi del crollo psichico dello scrittore, Reve, arriverà a conoscere il quarto uomo, colui che andrà ad aggiungersi alle striscia di sangue che la bella Christine si è lasciata alle spalle.

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Se la rasatura di Sansone l’ha reso vincibile ed incatenabile, la stessa sorte toccherà a Reve che caduto nelle secrezioni di tela della vedova nera non riuscirà a fuggire alle tormentate visioni di morte che lo perseguiranno, arrivando infine a salvargli la vita. Verhoeven crea un universo simbolico dove il cristianesimo fa da contorno ad una vicenda legata, a doppio filo, sia alla fede cattolica che al paganesimo di natura magica. Il suo lavorio tra i generi riesce nel definire un’opera che si sostiene perfettamente in equilibrio, ancorandosi, proprio come una ragnatela, a vari punti di appoggio. Il quarto uomo è un thriller, ma allo stesso tempo un horror, è erotico, è deforme e deformante, è ascrivibile per certi aspetti al queer cinema, è un film che ha la cadenza sognante di un noir, è un prodotto che evolve tematiche già espresse in precedenza dal suo autore; un tassello che lo avvicina alla perfezione chiudendo in un cerchio giottesco una centralità tematica che si definisce, senza esaurirsi, nella natura della donna e dell’uomo, del loro rapporto, nella sessualità che la prima ha il diritto di esercitare sul secondo come principio di superiorità biologica: come necessità carnale di progressione sociale. Il cinema di Verhoeven è da sempre un cinema liberale, vivo, profondamente europeo, olandese, nella sua accezione di generosità antidogmatica, che non si nasconde dietro ad un vestito, che non si cela dentro ad una mutanda, un cinema nudo di muscoli e natiche, di genitali, sudore ed amplessi, che denuda i corpi e i dogmi, un cinema viscerale e caldo dominato da algide e pericolose figure femminili. E’ con la donna che il cinema dell’olandese riesce ad instaurare un discorso di affinità (s)elettiva. Prima nelle forme appena accennate di un corpo femminile acerbo, mascolino, di un’interprete come Monique van de Ven, poi nelle bellezze androgine di un corpo bisessuato della Soutendijk, e dopo ancora nelle affilate fattezze di una Stone tratteggiata nei migliori anni della sua eterna bellezza, infine nelle grazie raffinate della Huppert, il corpo per la donna è un’arma bisognosa di un corpo maschile dentro il quale affondare la propria vischiosa lama. L’uomo nel cinema di Verhoeven è solo un orpello, una bestia impulsiva ed ottusa, che ha dei sentimenti che non riesce a manifestare se non nell’amplesso, un impedimento all’evoluzione ed al riscatto del genere femminile, un’esigenza questa da soddisfare per riuscire a superarlo in intelligenza, in generosità, in strategia ed in dinamismo. E se la bellezza e la forza è donna, il solo corpo in grado di contravvenire alla regola della bellezza verhoeveniana è la marmorea prestanza di un corpo maschile divinizzato come oggetto di culto gay. E’ una figura cristologica martoriata da accarezzare segretamente tra il lusco ed il brusco di una chiesa, un bronzeo e nudo David da osservare al di là di uno spioncino come solo oggetto di desiderio carnale. E’ nella fusione delle caratteristiche epidermiche del maschile e del femminile, nell’androginia, nella promiscuità, nella bisessualità che il cinema di Verhoeven trova il suo ricercato perfezionismo, meta inseguita ma non raggiunta in quanto irraggiungibile, punto focale e sfocato dalla presenza dell’eterosessualità che divide scindendo la bellezza della sintesi biologica.

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Il quarto uomo è anche un film sullo sguardo batailliano, sul netto legame che sostiene l’oggetto del desiderio dal desiderio dell’oggetto, con la capacità risemantizzante e moltiplicatrice di un segno che si traduce in un altro, mantenendo la sua definizione, come un uovo che nella sua ricorsività appare nel suo principio di forma/segno – ogni qual volta ri-semantizzato - diventando o globo oculare o genitale. E’ attraverso l’occhio e la vista che la realtà acquista densità di significato, che torna ad essere vera e non più fantastica, è attraverso l’obiettivo della mdp di Christine che l’identità viene rapita e conservata. Se lo scrittore “mente la verità” trasformando l’accadimento in narrazione fantastica, germe questo di un offuscamento della visione oggettiva che diventa soggettiva, fantastica, sognante e lisergica – e, nel film, si definisce cattolica, “cattolico significa avere grande capacità d’immaginazione” - la visione attraverso un dispositivo di ripresa oculare riesce a restituire la verità sciogliendo i dubbi che nascono dall’aperta distanza tra realtà ed immaginazione. Nelle immagini del film sono molti i riferimenti allo sguardo, al punto di vista, dal nome dell’Hotel Bellevue, alla masturbazione attraverso lo spioncino, dalla telecamera che riprende, ed in un certo senso uccide - o meglio maledice - come in Peeping Tom, al concetto di miopia che diventa sinonimo di pazzia. Il fatalismo mortifero che avvolge in spirali concentriche l’intera opera, e vicenda, si nutre di costrutti enunciativi e grammaticali che cadenzano la narrazione definendo una strada verso la perdizione del protagonista; se Sphinx – l’insegna del negozio di Christine - in olandese significa sfinge, quando non è perfettamente in funzione si tramuta in Spin che vuol dire ragno, un luogo dove la vedova nera (o rossa) nidifica intessendo una tela che attira, attraverso i suoi rosei neon, l’ignara ulteriore vittima sacrificale maschile. E se da una parte l’arrivo è definito attraverso il demoniaco abisso aracnide, il contesto urbano dove Reve si muove è tratteggiato da simboli cristiani, da didascalie (“Gesù è ovunque”) e da presenze salvifiche (strega bianca o Madonna?) che inducono il personaggio a fare attenzione ai presagi che biforcano la strada definendone le scelte tra la salvezza – cristiana, o meglio, mariana – e la perdizione, pagana e magica – che coincide con la morte e l’oblio nel mausoleo della strega/ragno. L’effetto di lisergica visionarietà, costruito attraverso una fotografia stroboscopica che lascia insorgere affinità con la Dreamachine teorizzata e costruita dal duo Burroughs/Gysin, apre degli spiragli nel sonno, e nel sogno, in grado di concatenare le immagini divinatorie che ne fuoriescono ai messaggi lessicali che il personaggio nella veglia recepisce nella realtà.

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L’ultima opera prima del consacramento cinematografico d’oltreoceano, che ci consegnerà opere trasposte dalla migliore fantascienza americana (Heinlein e Dick) ma non solo, l’ultimo film del periodo olandese di Verhoeven è una discesa negli inferi della visione, capace di ammaliare nell’erotismo come un’opera di Jakubowski, restituendoci un perverso ed alcolizzato faust che riesce a scampare alla tragedia della tentazione demoniaca tessuta dalla bionda strega nera, restando vivo, solo ad agonizzare nel paradiso dei vivi come un buon cattolico redento, avendo scelto di seguire la strega bianca, Maria, ed evitando di restare intrappolato come una mosca nuda nella tela di una vedova rossa.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 18/04/2017

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