Dossier Laura Poitras \ 2 - The Oath

The Oath è un perfetto, ambizioso esempio di backstory di una Nazione, controcanto scrupoloso e necessario alle bugie e alle semplificazioni del potere.

«La verità è che il rischio per un americano di essere ucciso da un terrorista è quasi pari allo zero, per la precisione è stato stimato in 1 a 20 milioni»

John Chuckman

Fa davvero bene, al cinema contemporaneo tutto ma anche a coloro che non amano poi troppo i compromessi narrativi dei media ufficiali, lo sguardo vigoroso e scomodo di una documentarista e giornalista del calibro dell’americana Laura Poitras, fresca vincitrice dell’Oscar come miglior documentario per il suo potente e in larga misura sconcertante Citizenfour. Un film sapientemente e consapevolmente impietoso, che amalgamava come meglio non si potrebbe documentazione al vetriolo e ricostruzione, condotta con estrema perizia, dell’esperienza personale dell’informatico Edward Snowden e della sua battaglia in nome della privacy dei singoli (sono di queste ore, manco a dirlo, le rivelazioni sul modo in cui la NSA ha spiato gli ultimi tre presidenti francesi in ordine di tempo). Un atto di resistenza compiuto a difesa, che è quel che più conta, di certi limiti che non andrebbero mai travalicati, specialmente da chi rappresenta i poteri forti e in loro nome agisce, molto spesso nell’ombra e nella più totale, furtiva impunità.

Andando a ritroso nella carriera della Poitras, obiettivo del Dossier che come rivista abbiamo deciso di dedicarle, si scopre la tagliente visione del mondo di una vera e propria osteggiatrice delle convinzioni diffuse, che agisce e si muove da watchdog del potere e che in quanto tale è stata pesantemente perseguitata e guardata a vista dal governo americano per i suoi lavori, incappando suo malgrado in svariati tentativi di metterle i bastoni tra le ruote e di insabbiare la sregolatezza scomoda, civile e tutt’altro che accomodante delle sue indagini. The Oath, girato dalla Poitras nel 2010, è il capitolo centrale di una trilogia, comprendente anche My Country, My Country, tutta incentrata sulle storture più deliberatamente antidemocratiche dell’America del post 11 Settembre, un trittico che lei stessa riassume così, nella maniera più esaustiva possibile, all’inizio di Citizenfour: “Nel 2006, sono stata inserita in una lista segreta dopo aver girato un film sulla Guerra in Iraq. Negli anni seguenti sono stata trattenuta e interrogata alle dogane statunitensi dozzine di volte. Il mio film successivo fu su Guantanamo e la guerra al terrore. Questo film è la terza parte di una trilogia sull’America del post 11 Settembre”.

Nella fattispecie, The Oath è un po’ un compendio di tutto ciò: si sofferma infatti sulla cosiddetta “guerra al terrore” della politica Usa, facendo luce su quel filo rosso che a partire dall’11/9, ma anche prima, sembra accomunare l’atteggiamento istituzionale americano in merito ad alcune questioni scottanti di rilevanza nazionale e internazionale, quali per l’appunto la gestione del carcere di massima sicurezza di Guantanamo, la guerra in Iraq, la lotta senza quartiere ad Al Qaeda. Come farà successivamente proprio in Citizenfour, la Poitras concilia come meglio non si potrebbe procedimenti stilizzati propri del thriller puro e semplice e il racconto diretto, quasi in presa diretta, dell’individualità del singolo, ancor meglio se questo qualcuno è un simbolo cruciale per meglio sviscerare le tematiche, i bersagli e gli obiettivi che si agitano alla base del documentario stesso. Nel caso di The Oath abbiamo addirittura un ritratto congiunto di due personalità, vale a dire Abu Jandal, ex guardia del corpo di Osama Bin Laden, e suo cognato Salim Hamdan, autista della famigerata mente dietro l’attentato alle Torri Gemelle. Se il secondo appare più evanescente ed è evocato nel film per vie indirette e traverse, del primo ci viene fornito un ritratto panoramico ed esaustivo, attraverso interviste e riprese più libere, dimesse e quotidiane. Che sembrano scrutarlo ed estrarre dai suoi atteggiamenti e dalle sue attività, anche dalle più ordinarie, diffusi elementi di interesse, piuttosto che pedinarne morbosamente chissà quali tendenze controverse e mostruose o cucirgli addosso intenti sanguinari posticci. E’ l’atteggiamento della Poitras a contare e a segnare uno scarto decisivo, ma altrettanto indispensabile appare anche il suo metodo di lavoro piano e rilassato, proprio, evidentemente, di chi sa davvero il fatto suo: a differenza di un’America sempre più accecata dalla retorica parossistica della lotta del nemico di turno, molto spesso tirato in ballo in ogni dove e anche in contesti nei quali non avrebbe possibilità di colpire concretamente, la regista utilizza due uomini sulla carta scomodissimi e compromessi fino al midollo rendendoli prima di tutto “realistici”, al solo fine di restituirci un’immagine rovesciata e demistificata della cieca bulimia antiterroristica degli Usa. Dove tutto fa brodo e il più delle volte si utilizzano motivazioni che non stanno in piedi per giustificare operazioni e prassi criminose e a dir poco discutibili.

Immagine rimossa.

A Sana’a, nello Yemen, Jandal, che è stato a Guantanamo e dà l’idea di sapere benissimo di che pasta è fatto quel luogo tanto discusso e dibattuto, fa semplicemente il tassista, è un uomo con più di un pregio che minimizza riguardo alla sua vicinanza e subalternità religiosa ad Al Qaeda, certo, ma tutto sommato ci appare piacevole, spigliato, morigerato (fu anche la prima persona legata ad Al Qaeda a essere catturata dopo l’11 Settembre). La Poitras è chiaramente, e per sua stessa ammissione, focalizzata sul valore paradigmatico della sua esperienza di reduce, ma non esita ad allargare la portata e la risonanza della sua messa a fuoco, lavorando sugli aspetti intimamente colloquiali di ciò che si vorrebbe spacciare per demoniaco, a tutti i livelli e senza distinzioni, per legittimare e legittimarsi. Ecco così che The Oath, attraverso un’accorta e mai strumentale spettacolarizzazione dei codici del cinema documentario, si pone come un perfetto esempio di backstory di una Nazione, controcanto scrupoloso e necessario, quanto meno per riequilibrare la posta in gioco, alle litanie tendenti all’autogiustificazione del potere ufficiale e alle sue bugie a piede libero. Se è vero, come ha scritto Mike Hale del New York Times, giornale col quale lo stesso Jandal interagisce fisicamente nel corso del documentario a proposito della nuova generazione di Al Qaeda, che la Poitras, sulla scia della lezione di Errol Morris, ha portato il cinema documentario “ad altissimi livelli di brillantezza”, è altrettanto innegabile la sua capacità di affrontare territori scivolosi e controversi uscendone rafforzata e mai tramortita e facendo adirare un po’ tutti a destra e a manca. E, che è quel che più conta, riuscendo puntualmente a mettere a dura prova ciò che sapevamo o credevamo di sapere e che è invece, il più delle volte, ci è stato soltanto inculcato.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 22/06/2015

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