Dossier H.P. Lovecraft / 8 - La morte dall'occhio di cristallo
Sotto il segno della AIP di Roger Corman, il film di Daniel Haller si muove agli albori del rapporto tra il cinema e Lovecraft, in un confuso confronto di orrore e fantascienza.

Non è affatto strano che, nel 1965, quando la American International Pictures si ritrovò a dover distribuire in Gran Bretagna La morte dall’occhio di cristallo, lo fece facendo uscire il film in double feature con La città dei mostri, diretto da Roger Corman nel 1963. Erano due film che appartenevano a una specie isolata, quasi delle mosche bianche nell’horror del periodo (ma anche rispetto a quello odierno). Erano film che si ispiravano a uno scrittore per molti versi infilmabile ma anche, all’epoca, con minore fortuna critica rispetto a Poe.
Facendo un rapido computo dei film che traggono direttamente spunto dalle opere di Howar Phillips Lovecraft, senza considerare quelli che a lui devono il loro immaginario ma dove Lovecraft non compare nei credits, ci troviamo di fronte a una sparuta minoranza di pellicole, soprattutto se andiamo indietro nel tempo.
La morte dall’occhio di cristallo è, in ordine cronologico, il secondo film tratto da Lovecraft e, in particolare, da uno dei suoi racconti più difficili da mettere in scena, Il colore venuto dallo spazio. E infatti non ha poi molto a che vedere con il testo originario, da cui si limita a prendere lo spunto del meteorite e alcuni meccanismi narrativi, come quello delle crescita abnorme delle piante.
Die, Monster, Die! (così recita il titolo originale) è una co-produzione anglo-americana a basso costo, che può contare sulla presenza sempre nobilitante di Boris Karloff e su alcuni effetti speciali all’avanguardia per la prima metà degli anni ‘60.
Per il resto, a prima vista sembrerebbe che non ci sia moltissimo da prendere seriamente in considerazione. Agli occhi dello spettatore odierno potrebbe sembrare il classico prodotto gotico del periodo, basato soprattutto su gente che cammina per i corridoi di una sinistra magione, aggravato da un ritmo catalettico che fa sembrare il film infinito, nonostante duri appena 80 minuti. Tuttavia non senza sussulti o scossoni, concentrati in quei momenti in cui il regista Daniel Haller (recidivo: avrebbe diretto The Dunwich Horror cinque anni dopo) si ricorda che la sua fonte letteraria è Lovecraft, per compiere così delle bizzarre incursioni nel mostruoso e nell’orrore indefinibile e strisciante.
Di conseguenza gli elementi lovecraftiani si riducono essenzialmente al personaggio interpretato da Karloff, Nahum Witley, e a quello di sua moglie Letitia.
Il primo è così ossessionato dalla caduta del meteorite nella sua proprietà e dagli strani poteri che questo oggetto arrivato da molto lontano sembra avere, da rischiare di perdere quasi la ragione. Quasi, purtroppo, perché il film contrappone al personaggio (che sembra realmente uscito dalle pagine di un racconto di Lovecraft) il razionale, posato e americano Stephen, fidanzato della figlia dei Witley e messo lì con il solo scopo di far tornare tutti coi piedi per terra dopo aver sfiorato a malapena l’orrore cosmico.
La seconda, la signora Letitia, porta addosso da sola il peso dei momenti di maggiore e genuina inquietudine presenti nel film: l’attrice, Freda Jackson, recita per tutto il tempo nascosta dietro alle cortine del baldacchino del proprio letto, per nascondere una trasformazione fisica dovuta proprio all’influenza nefasta del meteorite. Anche qui, siamo in perfetta sintonia con Il colore venuto dallo spazio, che parlava della corruzione della carne di chi entrava in contatto con la pietra precipitata dal cielo. Una corruzione che progrediva fino a tramutare gli sventurati contaminati in cenere, fossero essi animali, uomini o addirittura piante e cose inanimate.
Peccato però che alla fine tutto venga spiegato e, in assoluta controtendenza con la narrativa di Lovecraft, si assista a un pieno ritorno allo status quo: ma è comunque interessante la decisa virata che il film compie verso la fantascienza, uscendo in maniera inaspettata dal territorio soprannaturale e relegandolo a una semplice superstizione di un vecchio non del tutto sano di mente.
Da questo punto di vista Il colore venuto dallo spazio è infatti un riuscitissimo ibrido di fantascienza e orrore, ed è anche naturale che, adattandolo negli anni ‘60, si sia voluto far riferimento all’incubo radioattivo, particolarmente vivido in quel momento storico. Tuttavia, l’equilibrio perfetto del testo di Lovecraft non viene proprio preso in considerazione e il film è come spaccato in due: una prima parte gotica, che pare una riesumazione delle vecchie Old Dark Houses del cinema degli anni ‘30 e ‘40; una seconda parte molto più moderna e dinamica, dove è la fantascienza a prendere il sopravvento sull’horror, a discapito forse dell’atmosfera, ma pagando un inevitabile pegno ai movimenti psichedelici del suo decennio di appartenenza.
La morte dall’occhio di cristallo rappresenta gli albori di quel rapporto difficilissimo, fatto soprattutto di frustrazione e di pochi successi, tra Lovecraft e il cinema. Zoppicante, incerto, mancante proprio di quello spirito lovecraftiano presente invece nel coevo film di Corman; ma comunque un curioso reperto archeologico che, con tutti i suoi limiti, ha comunque dalla sua la dignità derivata dal coraggio dei primi pioneristici tentativi. E Boris Karloff, non c’è bisogno di dirlo, è semplicemente immenso.