Dossier H. P. Lovecraft/ 2 – I Miti nel cinema di John Carpenter

L’incontro fra il cinema di Carpenter, i miti del “solitario di Providence” e la fisica quantistica, ovvero “La fin absolue du monde”.

Quando nel 1927, sulla scorta delle scoperte e degli studi di Max Planck, Werner Karl Heisenberg formulò uno dei principi fondativi della nuova fisica dei quanti, cioè il “principio d’indeterminazione”, fu come se, in un colpo solo, le certezze acquisite dalla fisica classica nel corso della sua storia secolare finissero risucchiate in un imbuto spazio-temporale senza via d’uscita. Del resto questa rivoluzione gnoseologica mina alle fondamenta l’idea, confortevole e rassicurante, che il reale, così come appare strutturato, risulti retto da quelle indefettibili leggi e nessi logici – continuità e omogeneità del tempo e dello spazio, principio di non contraddizione, di causa, del terzo escluso – che ne garantirebbero il senso e l’intelligibilità. Dopo Heisenberg il mondo macroscopico, lineare e prevedibile, si fonda sulla dimensione microscopica, incoerente e imprevedibile.

Come sostiene Bruno Jarosson: "La prima reazione dei padri della fisica quantistica di fronte alle aberrazioni che scaturivano dalle loro equazioni […] fu quella di considerare il mondo microscopico come radicalmente strano e misterioso. Una simile interpretazione non è però la più logica. Il mondo microscopico dev’essere considerato così com’è. […] Dobbiamo quindi pensare che la cosa più strana non è la stranezza del mondo microscopico, ma la non stranezza di quello macroscopico". Tuttavia la nuova scienza è in grado unicamente di descrivere l’incommensurabile differenza e l’insuperabile opposizione fra la dimensione del visibile e quella dell’invisibile, iato che porta al crollo dell’immagine dell’universo di riferimento per i saperi umani. Solo una costruzione di matrice letteraria può essere capace, allora, non tanto di rendere ragione di tale irriducibile dicotomia, quanto di rivelare il cuore nero dell’enigma nascente, tramite l’onirismo allucinato e la potenza creativa del racconto fantastico, che fornisce risposte barocche e arabescate ai grandi dilemmi dell’uomo, precipitandolo nell’abisso senza fondo, arcano e incombente, dell’ignoto.

Howard Phillips Lovecraft, il “recluso di Providence”, vero grande padre fondatore della narrativa fantastica del ‘900, inizia nel 1926 (non a caso proprio nello stesso periodo in cui Heisenberg formula il principio d’indeterminazione) la stesura sistematica delle sue opere più innovative e ragguardevoli, che lo porteranno a conferire una fisionomia sempre più articolata e organizzata all’immaginifica mitologia dei “Grandi Antichi”, presenze sovrumane e ancestrali che albergano nei recessi più riposti dell’orbe terracqueo o nelle distanze dell’ignoto spazio profondo, in attesa di riappropriarsi del loro potere originario e colonizzare la terra. In questa nuova cosmologia i saperi tradizionali su cui l’uomo ha riposto fiducia e certezza, cioè la scienza classica e la religione, risultano pietose bugie o, ancor peggio, abbagli conoscitivi, una sorta di velo di Maya – o se si vuole di caverna platonica – che preclude la conoscenza veridica dei misteri dell’universo, cioè della sua dimensione più autentica e invisibile, celata ad un occhio errante invece sulle parvenze e i simulacri del visibile.

Il richiamo di Cthulhu (1926) inizia così: “Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ci spingessimo troppo oltre. Le scienze […] non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che occupiamo in essa, che o impazziremo […] o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura”. Il visibile e il macroscopico, armonicamente disposti, risultano contrapposti all’invisibile e al microscopico, caoticamente (de)strutturati. Si delinea qui una netta contiguità fra le scoperte della nuova fisica (le scienze di cui parla Lovecraft nell’incipit del racconto sono ovviamente quelle classiche) e le visioni del “solitario di Providence”, tanto più che lo scrittore ha piena cognizione dei progressi conoscitivi in atto, arrivando semplicemente a trasfigurarli, attraverso la creazione di un universo narrativo che funge da spiegazione onnicomprensiva (sorta di postulazione para-scientifica, o meglio fantascientifica, in cui la componente fantastica non risulta una negazione di quella intransigente ma limitata della scienza, bensì un suo completamento) delle contraddizioni e delle aberrazioni del reale.

L’incontro fra John Carpenter e le sinistre fantasmagorie di Lovecraft può situarsi proprio nella volontà di entrambi di trascendere le strette maglie del rigore scientifico, non per respingerne i nuovi approdi ma al contrario per arricchirli con la potenza visionaria dell’immaginazione. Non va dimenticato, a tal proposito, che la formazione spettatoriale del regista si fonda, in modo non trascurabile, proprio sui grandi classici della sci-fi americana degli anni ’50. Con tali premesse, assume una notevole importanza lo studio appassionato da parte di Carpenter, verso la prima metà degli anni ‘80, della fisica dei quanti, uno studio che gli consentirà di intendere appieno le dinamiche filosofiche che fungono da architrave teorico delle opere lovecraftiane più mature. È come se, senza Lovecraft, la fisica dei quanti smarrisse il proprio aedo e profeta, cioè l’unico in grado di rivelarne le conseguenze ultime tramite il mythos, e senza la fisica dei quanti, la cosmogonia/cosmologia lovecraftiana perdesse i propri presupposti teorici, vedendo diluita la propria annichilente potenza. Il ‘900 è un secolo di cambiamento epocale nella percezione del reale, e il soggetto di tale percezione si ritrova, in un lampo accecante di improvvisa consapevolezza, ad essere rigettato nella tenebra di una nuova età di erranza conoscitiva, priva di certezze e punti fermi: Lovecraft, con la sua opera, non ha fatto altro che profetizzare acutamente l’avvento di questa nuova era, mentre Carpenter, dal canto suo, ne ha svelato brillantemente possibili e ulteriori esiti, muovendosi in parallelo con lo scrittore, in alcuni dei suoi film più folgoranti e riusciti.

La cosiddetta Trilogia dell’Apocalisse, che annovera La cosa (1982), Il signore del male (1987) e Il seme della follia (1994), non è soltanto un omaggio al “recluso di Providence”, soprattutto col secondo e col terzo titolo, ma una vera e propria messa in immagini dello spirito che ne anima gli scritti, nonché il segno di una comprensione profonda dei molti enigmi in essi contenuti. La parola-chiave della trilogia è ovviamente “apocalisse”, dal greco ??????????, che indica il rivelarsi di ciò che è nascosto, per il tramite del divino. Naturalmente, se – come accade nella produzione letteraria di Lovecraft, così come in quella cinematografica di Carpenter – di Dio e della Provvidenza non vi è traccia, lo svelamento della verità che si cela sotto le incerte apparenze del mondo fisico si configurerà giocoforza come la perturbante epifania di una realtà mostruosa, nella quale la presenza di un’eventuale Intelligenza sopra le cose non potrà che essere maligna, nella peggiore delle ipotesi, oppure ottusa e cieca e in realtà tutt’altro che intelligente (un divino che gioca, eccome, a dadi) nella migliore. D’altro canto, la rivelazione del nascosto indicata dal termine “apocalisse” si addice perfettamente anche alle scoperte della nuova fisica, nel loro portare alla luce le leggi e le forze anomale che si celano nella dimensione dell’infinitamente piccolo, quindi dell’invisibile, e perciò tout se tient. Sulla scorta di tali considerazioni, è possibile notare come ne La cosa – quindi in un momento creativo della carriera di Carpenter in cui la fisica dei quanti non appartiene ancora pienamente al suo orizzonte teorico – le suggestioni lovecraftiane siano ancora una sorta di sfondo in un film che omaggia, ma soprattutto stravolge dall’interno, gli stereotipi della sci-fi americana anni ’50, risultando comunque, per innumerevoli motivi, un capo d’opera della produzione carpenteriana. In ogni caso, il delinearsi di un universo nel quale l’uomo è una fragile pedina, preda di soverchianti forze da altre dimensioni e della loro invisibile capacità di impadronirsi del suo corpo dall’interno (tema che ritornerà con la stessa importanza anche nel secondo capitolo della trilogia e, in modo più sottile, anche nel terzo), è un’idea tutt’altro che distante dalla cosmologia di Lovecraft. È inoltre indubbio il debito del racconto La cosa da un altro mondo, di John Wood Campbell, da cui sono tratti sia il film di Nyby/Hawks del 1951 sia quello di Carpenter del 1982, nei confronti del romanzo breve di Lovecraft Le montagne della follia. Peraltro, Le montagne della follia, fin dal titolo, costituirà anche un chiaro riferimento per il terzo capitolo della trilogia, specie nei modi in cui il contagio alieno si diffonderà per colonizzare la terra, e cioè attraverso una demenza collettiva, che si delineerà come il riflesso manifesto ed esteriore dell’irrazionale che alberga nelle inaccessibili profondità del cosmo.

È solo con Il signore del male, comunque, che accade il miracolo di visualizzare compiutamente gli incubi del “solitario di Providence” in una pellicola carpenteriana a 24 carati, in cui i riferimenti alla fisica dei quanti fungono da pietra angolare del racconto.

Ne Il signore del male, ritornano molte delle ossessioni ricorrenti del regista: dalla dimensione dell’assedio a quella della contaminazione invisibile; dalla difesa dell’umanità nelle mani di pochi malcapitati eroi al silenzio di Dio, che qui diviene il sussurro cupo di un Anti-Dio composto di anti-materia; dall’irresponsabile riservatezza e assenza delle autorità (specie di quelle ecclesiastiche, nel caso) preposte a proteggere la collettività, all’ignoranza di quest’ultima circa la minaccia incombente. I temi carpenteriani fungono da motore “tattico” di una vicenda, la cui visione panoramica e “strategica” affonda a piene mani nell’immaginario lovecraftiano: l’universo di riferimento della comunità umana è un sottile velo di falsità atte a mascherare una verità abnorme; i saperi antropici, cioè scienza e religione tradizionali, sono malferme pellicole apposte agli strati più profondi e veridici del reale; una volta che il divino autentico, che abita gli abissi del cosmo e del tempo, farà la sua comparsa, per l’umanità non vi sarà più scampo. In particolare, i limiti della scienza sono individuabili nelle parole del professor Birack (Victor Wong): “La nostra logica crolla a livello subatomico, tra fantasmi ed ombre”; e poi: “Anche se esiste un ordine nell’universo, non è affatto quello che noi avevamo in mente”.

Di fatto, più che dover essere banalmente considerato come una sorta di trattato anti-religioso, o più specificamente anti-cattolico, in chiave horror/sci-fi, Il signore del male, nella sua assoluta laicità non-laicista, scaglia i propri strali, con pari veemenza, sia contro la limitatezza dei dogmi della fede sia contro quella altrettanto oscurantista e superata dei dogmi della ragione e della (vecchia) scienza. A dominare è infatti l’irrazionalità di una Cosa (sarebbero due, Anti-Padre e Anti-Figlio, secondo il modo di pensare binario e monocorde dei vari studiosi, religiosi e non, che tentano vanamente di contrapporvisi, in quanto totalmente impreparati a confrontarsi con questa nuova realtà annientatrice) composta di anti-materia, che per sua natura, quindi in assenza di volontà e decisione, esattamente come accade a pressoché tutte le bestiali entità divine o semidivine del pantheon lovecraftiano, preme per uscire dalla propria condizione di invisibilità subatomica e rivelarsi finalmente al mondo. Se si vuole, si tratta di una lettura metafisica di un problema fisico, allo stesso modo in cui, in Lovecraft, si delinea una lettura poetico-letteraria di un problema scientifico. Di certo, se vi è un film che riesce a fondere tutte le suggestioni della sci-fi più matura e quelle dell’horror più estremo, esprimendo nel contempo, in modo onnicomprensivo, le ossessioni e le conoscenze del suo autore, perfettamente amalgamate con quelle del più importante dei suoi riferimenti letterari, questo non può essere altro che Il signore del male.

Con Il seme della follia, Carpenter alza ulteriormente il tiro, costruendo un vero e proprio palinsesto filmico afferente almeno a due livelli di senso, ciascuno dei quali composto da più strati narrativi e tematici, i quali, pur distinguibili, si amalgamano sino a formare un unicum destabilizzante e sinistramente perfetto.

Al primo livello, si riscontra un canovaccio di racconto che segue le coordinate già sviluppate ne Il signore del male, che riprendono e ripropongono, a loro volta, le suggestioni dei miti lovecraftiani post 1926: una stirpe di deformi e gorgoglianti entità aliene dai poteri smisurati sta per accedere al nostro mondo, attraverso un varco spazio-temporale rappresentato da un libro e dal suo autore, il malefico Sutter Cane (Jürgen Prochnow), moderno e distorto alter ego di Lovecraft nonché sacerdote/custode della nuova verità; un malcapitato detective assicurativo, con marcati tratti hawksiani e aldrichiani, John Trent (Sam Neill), rappresentante solitario delle istanze dell’antica e superata visione del mondo, tenterà di opporsi all’orrenda invasione con la sola e malriposta forza del proprio raziocinio. Trent finirà col dover ammettere che, per penetrare appieno gli enigmi della nuova realtà, è necessario certamente guardarla con altri occhi, ma soprattutto credere a ciò che, appunto, si vede e non a ciò che si ritiene (ciecamente) vero. Di fatto, il percorso conoscitivo di Trent è l’opposto di quello di un qualsiasi spettatore di film horror, in quanto egli non passa dalla credenza allucinatoria – sospesa e parziale quanto si vuole – propria della visione filmica alla riemersione nel quotidiano, ma compie il cammino opposto, transitando dal suo scetticismo originario, pervaso di buon senso e di logica, alla fede assoluta e folle nel sovrannaturale. Del resto, per lui, la vita si rivelerà esattamente come un film.

Al secondo livello di senso, si sviluppa la dialettica/compenetrazione fra cinema e scrittura, in cui Carpenter brillantemente illustra come si “fabbricano” un bestseller letterario e un blockbuster cinematografico (che però avrà, beffardamente, un unico e ultimo spettatore), e come si distrugge un mondo fasullo con la potenza della finzione… e del marketing: del resto, ci troviamo nell’”epoca della riproducibilità tecnica” descritta da Benjamin, e la diffusione del contagio che porterà alla distruzione del mondo non avverrà a causa di un libro maledetto, ma grazie alla sua circolazione in innumerevoli copie; una sorta di Necronomicon in edizione tascabile e alla portata di tutti. In una costruzione a matrioska, in cui si fondono i disorientanti mondi di Lovecraft – ben al di là delle svariate citazioni più o meno “ludiche” disseminate nella pellicola – assieme a quelli spiraliformi di Borges e a quelli stratificati e ucronici di Dick, Carpenter riflette sulla capacità della fantasia di superare la realtà, creandone una nuova, forse più vicina alla verità di quanto non lo siano le apparenze visibili e familiari che ci circondano. Si riscontra anche, però, una specifica dichiarazione d’amore nei confronti del cinema e della sua abilità nel penetrare le maglie del reale, non tramite la conoscenza, bensì attraverso la visione. Infatti, il vero universo inglobante e onnicomprensivo della pellicola è il film stesso, nel quale agiscono, in guisa di marionette mosse da invisibili fili, i vari personaggi, letteralmente posseduti dalla forza allucinata del regista, unico e autentico master of puppets. Anche l’elemento letterario, tema portante del racconto filmico, non è altro che l’innesco narrativo principale per il trionfo definitivo delle immagini, che, attraverso la mise en abîme del film-nel-film, fungono da orizzonte aggregante dell’universo diegetico nei suoi molti aspetti.

Peraltro, lo scarto fra i molti piani di realtà trova una ricomposizione unitaria proprio grazie all’intuizione del film-nel-film, che, nel momento stesso in cui John Trent, nel finale, entra nella sala vuota a fissare sullo schermo l’allucinata riproposizione delle sue avventure, si rivela come l’unico film a cui gli spettatori reali stanno assistendo, insieme al protagonista. O forse, anche gli spettatori reali altro non sono che mere proiezioni illusorie della volontà del regista-burattinaio e, per esistere davvero, non devono far altro che cominciare a credere, proprio come Trent. Certo, credere è difficile in un mondo articolato e stratificato, in cui l’unica vera fonte di autenticità sembra essere la finzione e in cui i mezzi ufficiali di informazione, cioè la televisione, la radio e soprattutto la pubblicità, altro non sono che distorsioni e falsificazioni della realtà, come già mostrava sagacemente Essi vivono (1988). A tal proposito, non va infatti trascurato lo scarto, all’interno della diegesi, fra la moltitudine fanatica che affolla le librerie in caccia dell’ultima e risolutiva opera di Cane e la sala vuota del cinema in cui la trasposizione filmica del suo bestseller viene proiettata (sulla locandina esposta fuori dal cinema è possibile leggere, nei credits, il nome autentico di Carpenter). Il regista, collocando il personaggio di Trent da solo, nella sala deserta, e il proprio nome sulla locandina del film-nel-film, sembra rivolgere un autoironico sberleffo a se stesso, ma anche un mordace motteggio all’indirizzo del mondo fasullo del mainstream letterario e cinematografico, come a dire: il film definitivo avrà un unico spettatore, che è anche il protagonista del medesimo, mentre il mondo, là fuori, non esiste più. Una première coi fiocchi. Intanto, “La fin absolue du monde” è in atto e, come su un nastro di Möbius, (ri)comincerà indefinitamente e ininterrottamente, almeno per chi ancora crede nel cinema.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 13/03/2017

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