Dossier Giovanni Cioni / 7 - Intervista

Fuori tempo, fuori spazio, l'intervista a Giovanni Cioni, filibustiere del reale.

La città di Napoli è al centro di due tuoi lavori: In Purgatorio e Prima di Napoli. Come è stato entrare nel mondo quasi magico e irrazionale descritto nel documentario In Purgatorio, e che cosa ti ha affascinato di questa dimensione? Come nasce invece l’idea originale di Prima di Napoli, quella, per così dire, di creare una cartolina che si anima?

Diciamo che Prima di Napoli, che fa parte del progetto collettivo Napoli24, è una conseguenza di In Purgatorio, e lo vedo come una sorta di epilogo. In Purgatorio non era un film su Napoli, non si vede mai il mare, il Vesuvio, Prima di Napoli invece è una sola immagine sul porto, Napoli, il Vesuvio. Una sola immagine che racconta 24 ore in una durata di 3 minuti - ma non 24 ore in accelerato, sono frammenti di qualche secondo in tempo reale montati in dissolvenza l’un nell’altro, come delle ellissi di tempo che sprofondano l’una nell’altra. L’idea era di dare questa immagine vertiginosa di un tempo immobile che precipita. In questo ciclo del tempo, la città è come un corpo di cui si sente il respiro.

Quanto a In Purgatorio – c’è una logica onirica del reale di una città, una città che si compone dei vissuti dei suoi abitanti, come una polifonia, dei loro vissuti innumerevoli, dei sogni e dell’immaginario che compongono questo reale, e su questa logica avevo lavorato in progetti precedenti, a Bruxelles dove vivevo. C’erano Le Città Invisibili di Calvino. Un mio amico napoletano mi fece leggere Antropologia delle Anime in Pena, degli antropologi Stefano de Matteis e Marino Niola. Il culto delle anime del purgatorio raccontava proprio questo: i morti senza nome che chiamano in sogno, che chiedono di essere adottati, la realtà urbana del culto. Per di più non conoscevo Napoli, e questo mi permetteva di costruire una rappresentazione della città come se io mi immedesimassi in un’anima in pena che erra, fantasma, sconosciuto, attraverso la sua folla. Quasi come se la Napoli del film fosse il sogno di una capuzziella.

In questa erranza cercavo incontri veri – ho evitato le storie fantastiche di quelli che avevano visto il monaciello, la bella mbriana, ho evitato questo folklore, proprio perché volevo calare questa dimensione onirica in un vissuto reale, in carne e ossa. Non volevo che questa mia ricerca si riducesse ad una metafora del Purgatorio e Napoli. Dunque incontri veri, non persone che siano delle figure che illustrino il tema. Sono molto intuitivo e mi fido delle mie intuizioni, anche se spesso ho difficoltà a spiegarle. Ma sapevo che Sergio e gli amici suoi che passano le serate a giocare a carte a casa sua, erano questa umanità che cercavo. Uso la parola umanità nel senso di essere umano, nel senso in cui ognuno è uno degli altri, nel senso in cui ognuno può ritrovare qualcosa di sé, del proprio vissuto, nel vissuto degli altri. E questo mi importava: non una rappresentazione rassicurante del “Purgatorio di Napoli”, ma un viaggio quasi iniziatico – nel senso in cui ogni iniziazione è un passaggio. E in questo passaggio che è il film, ognuno trova qualcosa che gli parla del proprio vissuto – l’attesa, lo smarrimento, la solitudine, la morte.

Nous/Autres è un film girato a Bruxelles, città dove sei cresciuto, che tuttavia porta lo spettatore lontano nei luoghi – la Francia, la Germania – e nel tempo – la Seconda Guerra Mondiale. Come hai conosciuto i protagonisti Yann e Helga che nel film si raccontano? E come hanno accolto la proposta di girare questo film-intervista sul loro personale vissuto?

Ho conosciuto Yann e Helga in maniera casuale, per un progetto teatrale che doveva coinvolgere anziani abitanti di un quartiere di Bruxelles dove vivono molti profughi di oggi – c’è un centro di accoglienza per rifugiati, Le Petit Chateau. Loro stessi erano stati profughi, al tempo della guerra, lei ebrea tedesca, ragazzina di 16 anni in fuga con sua sorella, lui bambino di 8 anni che vide sua madre uccisa davanti ai suoi occhi - e il film nasce da lì. Dal tentativo di esplorare come possano coesistere storie e tempi diversi in uno stesso territorio, dal tentativo di interrogare la memoria nel presente, interrogare - e interrogarsi su - cosa si possa capire del vissuto dell’altro. Non è un film di interviste – la loro storia è interpretata, come una testimonianza, da attori – Yann e Helga arrivano in seguito alla testimonianza, quasi a ricostituire i pezzi della loro storia nel loro presente. Mi interessava, in questa ricerca, creare quasi una distanza tra la memoria nel racconto e la persona che l’ha vissuto, questo racconto. E probabilmente questo era l’aspetto più sconvolgente, per loro, per Yann nella sua istrionicità, per Helga perché le ha fatto risorgere tutta una esistenza che quasi non era più la sua, ma quella di un’altra persona, lei ragazzina in fuga, che si nasconde durante la guerra, che vede tutti i suoi scomparire. La sera dopo la prima Helga non ha potuto dormire – rivedeva e riviveva tutti i luoghi della sua fuga. Il film è in parte girato in una casa abbandonata che poteva rievocare una delle case nelle quali si era nascosta. Lei si rivedeva lì. Più che il racconto stesso è la capacità di evocazione del film, quello che il film suscita nel suo protagonista, che importa per me. Il film diventa una realtà, nella quale lei ritrova l’altra che era stata – il titolo nasce da lì, da Helga che mi dice che quando pensa alla sua storia è come se fosse un romanzo che parla di qualcun altro. Il titolo, e la forma particolare del film, dove la testimonianza la faccio raccontare da attori, che la raccontano e la interpretano in prima persona.

Per Ulisse: un documentario che racconta una realtà difficile e problematica, riletta in maniera anche poetica attraverso la metafora del personaggio di Ulisse. E’ stato difficile stabilire sintonia e complicità con le persone intervistate? E forse è stato, per gli stessi intervistati, anche gratificante ed entusiasmante sentirsi ascoltati, trovare uno spazio per esprimersi, per denunciare un dolore, condividere un desiderio?

La difficoltà era capire (anche per me stesso, per la forma che poteva prendere il film) che appunto non volevo fare un film di interviste ma creare uno spazio, una situazione, dove ognuno potesse sentirsi libero di raccontare, raccontarsi, inventare, senza lo sguardo che giudica – perché la loro esperienza è di doversi raccontare e giustificare agli occhi di assistenti sociali, psichiatri, giudici, poliziotti – della società.

Io non volevo fare domande e non ne faccio – salvo per incoraggiare, rassicurare.

Volevo creare una situazione di racconto senza giustificazioni – e questa situazione l’ho creata dicendo che avremmo fatto Ulisse, Ulisse che è colui che non è mai tornato, colui che non viene riconosciuto, colui che è passato attraverso le intemperie e la morte, colui che si racconta. Non sembra, ma in fin dei conti, nella sua composizione, il racconto del film è molto fedele alla composizione dell’Odissea.

Ma innanzitutto per un lavoro come questo, devi vivere con le persone, condividere sentimenti, anche raccontarti. Il racconto nasce dal racconto. Devi esporti, con i tuoi dubbi. Io non portavo la telecamera con me, ma scrivevo molto, e quello che scrivevo lo mostravo, lo facevo leggere – erano per esempio trascrizioni di storie, racconti, situazioni, vissute e ascoltate al Ponterosso. Le facevo leggere e magari anche interpretare, come delle prove per il film. Da lì sono nate situazioni di racconto, ma anche il fatto che queste storie possano circolare, essere tramandate. Mescolavo questi testi a frammenti dell’Odissea e da lì vengono i testi che si leggono nel film. Il film stesso, nella sua forma, è nato dal sopralluogo fatto al San Salvi, l’ex ospedale psichiatrico di Firenze, con Silvia Guasti. Ho filmato e montato il sopralluogo, l’ho mostrato agli altri, ed era la “cifra” che poteva dare forma al film. Che si è fatto in elaborazione continua: mostravo frammenti, sequenze montate, e proseguivo le riprese.

Quanto al discorso della gratificazione, credo sia molto complesso. Perchè aldilà dell’ascolto, dell’attenzione, del riconoscimento (la prima del film al Festival dei Popoli – sono saliti tutti sul palco della più bella sala cinematografica di Firenze, e ci tenevo, poi il premio, il fatto che tutti a Firenze ne abbiano parlato), aldilà di tutto questo non è cambiato nulla nella loro vita. Né era pensabile che cambiasse con il film ed io ero ben attento a non coltivare illusioni – non è perché fai un film che la tua vita cambia. Ma in alcuni restava questa illusione, nascosta magari. Rimane, certo, la soddisfazione del riconoscimento, anche il semplice fatto che qualcuno che li ha visti nel film li saluta per strada – mentre prima erano invisibili.

Il tuo ultimo film, come annuncia il titolo – Dal ritorno – si ricollega a Per Ulisse e in un certo senso a Nous/Autres per la tematica del ritorno inteso come sopravvivenza, stavolta in senso ancor più letterale dal momento che i racconti del protagonista, Silvano Lippi, descrivono soprattutto l’esperienza atroce e scioccante di Mauthausen. Cosa ti ha spinto ad entrare in contatto con Silvano Lippi, come è stata la tua esperienza di lavoro con lui?

Proprio il fatto che si parlasse di Mauthausen, che l’esperienza fosse così sconvolgente e forte, come si dice nel gergo del documentario, è stata una delle ragioni che mi hanno fatto esitare a fare il film. Perchè non appena pronunci la parola Mauthausen si crea un immaginario determinato e deterministico che quasi ti impedisce di guardare e di ascoltare. E io volevo guardare e ascoltare un uomo, andare oltre la testimonianza, interrogare appunto il fatto di essere sopravvissuto, cosa significa vivere dopo, l’incredulità stessa nell’esistenza dopo che si cerca di vivere - quando invece sei sempre laggiù, dove la tua vita è rimasta. Volevo parlare della testimonianza, certo, indispensabile e unica, ogni testimonianza deve essere tramandata, ma anche della solitudine del sopravvissuto - perché se lo sei, se sei vivo, vuol dire che gli altri sono morti.

Dunque, quando ho conosciuto Silvano tramite un amico comune, lui mi ha chiesto di accompagnarlo laggiù, mi ha detto che aveva tante storie da raccontare. Ci siamo rivisti e l’idea che mia dato lo spunto è stata appunto la sua solitudine, che nessuno di quelli che avevano vissuto la sua storia, nessuno di loro poteva ricordarsi di lui - perché erano scomparsi. Può sembrare una riflessione scontata, ma per me è stata rivelatrice, gli ho scritto una lettera e la lettera ha dato forma al film. Nel senso che fosse un film che si rivolgesse a lui. Perché io guardavo, lo ascoltavo, mi rivolgevo a lui, e potevo cercare di immaginare le scene, i luoghi, Mauthausen - dove sono andato, come un sopralluogo dopo il racconto, come a cercare tracce di Silvano. Lui riviveva quello che raccontava - e le circostanze hanno fatto che durante la lavorazione del film lui abbia vissuto un’altra sopravvivenza, da un attacco cerebrale, e il racconto del film segue la sua convalescenza. In un certo senso un film che parla di sopravvivenza, del senso e della solitudine del sopravvivere, in una situazione reale di sopravvivenza. Dove questa situazione entra in gioco nel racconto del film.

Silvano racconta come se fosse sempre laggiù, come se quello che racconta lo stia ancora vivendo, o sia appena successo – dunque racconta in maniera immediata, brutale. Al suo ritorno dai campi non ha avuto nessuno con cui condividere il suo racconto, nessuno che abbia avuto la sua esperienza, con cui elaborare, cercare di dare un senso. Lui non era un politico, un partigiano, non era ebreo, era solo un soldato in Grecia deportato per avere rifiutato di arruolarsi nell’esercito repubblichino. Quando è tornato si è confrontato con l’incredulità dei suoi, si è chiuso nel silenzio, rifiutandosi di raccontare, e ha dovuto riprendere a vivere, un’esistenza normale, normale con le sue difficoltà e le sue gioie, il tentativo di essere felice e spensierato, come se niente fosse.

Per questo silenzio il suo racconto diventa dirompente – c’è l’urgenza di raccontare, urgenza accresciuta drammaticamente dal fatto di essersi ritrovato in ospedale, tra la vita e la morte. Certo, al momento di fare il film erano dieci anni e più che raccontava la sua storia – aveva scritto un libro, era stato a Chi l’ha visto?, era invitato nelle scuole, a conferenze. Ma ho l’impressione che questo non gli bastasse più, raccontava e si ritrovava sempre solo, aldilà del conforto e dell’affetto dei ragazzi che lo avevano ascoltato (una volta lo vidi a scuola e alla fine del suo racconto i ragazzi lo venivano a salutare, ad abbracciare, quasi per volerlo toccare, in carne e ossa – poi gli chiedevano la sua mail o il suo numero di cellulare). Non so che cosa si aspettasse del film – del film che facevo per lui, come dice ad un certo punto, e mi piace che lui dica questo. L’urgenza di raccontare, ancora una volta, con la paura di dimenticare qualcosa, con la paura di non raccontare bene, con tutte le situazioni e le immagini che si accalcano nei suoi occhi mentre racconta e rivive – e ogni volta mi chiede se è andata bene, se è stato bravo. A me interessava il racconto e il fatto stesso di raccontare, con le sue ripetizioni, con i momenti in cui il racconto diventa quasi un canto.

Immagine rimossa.

Negli ultimi anni si è vissuto uno sconfinamento dei mokumentary nel mercato mondiale, la finzione si è appropriata dello stile del documentario. I tuoi film vivono sempre sul confine tra realtà e finzione. Tra vero e falso. Lavorando nel verso opposto rispetto ai mokumentary, la realtà che riprendi cela sempre una strada avventurosa, una possibilità di racconto e di fiction. Secondo te, quand’è che un documentario inizia a diventare un film di genere?

Non ho nulla contro il film di genere. Ho fatto un "film d’avventura", Gli intrepidi, ho in mente una commedia musicale, se mi proponessero una fiction televisiva non rifiuterei - ma vi assicuro che non me la proporranno. Faccio film, per me il fatto di servirmi della finzione immaginaria è funzionale al proposito, alla ricerca del film, a quel che voglio suscitare con le persone che filmo, al percorso che propongo allo spettatore.

Temo più le definizioni che vogliono categorizzare e creano quell’obbrobrio di parole - come docufilm... dunque non ho nulla contro il film di genere – nel senso in cui il genere può essere uno strumento che permetta con i suoi codici di esplorare un immaginario o fare apparire un reale che non potrebbe essere mostrato. In questo senso mi interesserebbe il mockumentary, per esempio, se potessi utilizzarlo per parlare della finzione del reale. Mi interessa, altro esempio, la struttura narrativa di certi videogiochi che appunto “giocano” sulle molteplici possibilità del reale e sto pensando ad un progetto in questo senso.

Se invece per “film di genere” si intende la riduzione di un approccio al luogo comune di una forma prestabilita, già sperimentata prima e rassicurante – la risposta allora è in quel che ho appena detto. Certo, questa formattazione è anche rassicurante per chi commissiona i lavori e questo è un altro discorso, che spesso è una scusa, perché innanzitutto ci sono gli automatismi di pensiero che fanno che non si interroga lo strumento narrativo che si usa – per cui un documentario documenta una realtà esistente e basta, un testimone è funzione della sua testimonianza e basta, un repertorio d’archivio racconta la bellezza del passato, e così via.

Credo che non bisogna mai dare nulla per scontato – per me un archivio dovrebbe essere innanzitutto sovvertito per interrogare il presente.

In un mondo cinetico dove tutto si traduce velocemente in immagine, derealizzandola rispetto all’oggetto che la genera, in questo scenario postmoderno, come e dove si può ancorare lo sguardo autoriale per cristallizzare la propria personale autorialità tra la moltitudine di punti di vista che caratterizza questa nostra liquida società? In questo stesso scenario, quali sono le derive dell’immagine documentale?

Il punto non è tanto rivendicare la propria presunta autorialità. Ognuno deve cercare il suo posto nel mondo e cercare di fare al meglio da lì dove vive e guarda e ascolta – e cercare di farlo al meglio con gli strumenti che ha. E per quanto mi riguarda cercando di capire cosa guardo, cosa ascolto, e cosa vivo. E vedo immagini, oggi si può vedere tutto, in tempo reale, e questo fatto di vedere tutto, come con un senso di ubiquità, mi affascina e mi crea vertigine – ed è da questo senso di vertigine che parto. Perché vedo che il reale non è solo in quelle immagini in tempo reale, ma nel loro fuoricampo, e magari nella loro coesistenza, nel loro raccordo improbabile, come in una polifonia. Dunque bisogna andare fuoricampo – e nel cinema ci siamo dimenticati dell’importanza del fuoricampo, cioè di quello che non si vede ma che è presente. Andare fuoricampo e andare fuoritempo, uscire dal “tempo reale”. Credo che per esplorare il presente bisogna essere anacronistici. Fuori luogo, fuori tempo, per uscire dalla gabbia del luogo comune, del tema d’attualità.

Pensando all’immaginazione negli Intrepidi, nel tuo cinema, l’immaginazione che peso ha sulla realtà che riprendi? Quanto influisce la fantasia sul reale? E sulla scrittura cinematografica?

L’immaginario fa parte integrante del reale e io cerco di raccontare questo – che il reale è fatto dalla molteplicità dei vissuti che esistono insieme, che in ogni vissuto c’è l’aspettativa, il sogno, il timore, l’immaginario. L’uso dell’immaginario è uno strumento per raccontare il reale oltre il limite dell’immagine che sembra documentare e non racconta. Per raccontarlo, fuoricampo. Fare un film ricorrendo all’immaginario di Ulisse permetteva di creare uno spazio di condivisione con i protagonisti di Per Ulisse, l’uso del Corsaro nero di Salgari creava uno spazio nel quale muoversi con i ragazzi de Gli Intrepidi e condividere il loro immaginario del reale, della sua avventura stessa. E nella scrittura il ricorso all’immaginario mi serve da mappa per uscire dal luogo comune dello sguardo che potrebbe nascere su un tema – pensavo a Giona nella balena, per dire, mentre facevo il film con Silvano.

Perdersi, navigare, viaggiare, come sintetizzeresti in un verbo il tuo modo di fare cinema? E perché?

Vivere. Nel senso in cui vivo quello che faccio, nel senso in cui il film è l’esperienza che si vive facendo il film, quello che si scopre facendolo, quello che si scopre dallo sguardo degli altri.

Il tuo è un cinema partecipativo, in quanto necessita di una partecipazione attiva per compiersi, è un’avventura che parte quando il tuo sguardo inizia a riprendere per raccontarsi con la cadenza di un diario di viaggio. Quanto conta l’esperienza partecipativa nel processo realizzativo cinematografico nel tuo cinema e quanto nella forma finale che poi l’opera arriverà ad avere?

Prima parlavo degli Intrepidi e di Per Ulisse – il ricorso all’immaginario è proprio perché il film nasca da un’esperienza partecipativa. E questa esperienza mi importa appunto per il vissuto che si crea, per il fatto che da questo confronto nasca qualcosa che non potevo immaginare, che vada oltre l’illustrazione di un proposito, di un teorema. In questo senso ogni film è un’esperienza, un vissuto, quasi un’iniziazione al reale, un luogo di passaggio.

Certo, ho un’intuizione della forma che il film può prendere, un’intuizione anche del montaggio ce l’ho al momento in cui giro, in cui scopro le immagini che stanno nascendo davanti ai miei occhi, e ce l’ho anche prima di girare. E nel mentre un’immagine si forma mi racconto una storia. Ma tutta questa intuizione mia è una mappa di navigazione – per addentrarmi dentro le terre incognite...

Tra la moltitudine di identità personali che si confondono nella collettività comunicativa, tra le varie esistenze che la realtà contiene, a che punto un’esistenza smette di essere altro nella moltitudine ed inizia il suo racconto personale? A che punto si attiva l’occhio autoriale e cinematografico su un’esistenza singolare? Pensando a Témoins, Lisbonne, Aout 00, quand’è che si genera la particella drammatica nella storia del singolo individuo osservato, iniziando così il suo racconto?

Non sai quando ti innamori, spesso te ne accorgi in ritardo, e tantomeno sai il perché. E spesso non vuoi saperlo. Perchè magari la causa risiede in un dettaglio, in qualcosa di inspiegabile. E qui, nel fare un film, è un po’ così. Qualcuno o qualcosa ti chiama, ti trasporta, e cominci il viaggio appunto per capire perché. Come in uno dei racconti delle Voci di Marrakech di Elias Canetti: nel mezzo del rimbombo di voci e rumori del mercato di piazza Jammaa Lafna c’è un mormorio, una voce quasi inaudibile che lo scrittore crede di sentire ma non sa da dove venga – e torna e ritorna sulla piazza, alla ricerca di questa voce invisibile.

Parti e non puoi spiegarlo in partenza, non puoi definire cosa ti chiama. Il modo in cui Helga, di cui non conoscevo ancora la storia, mi disse che non sapeva dove i suoi erano scomparsi.

Il modo in cui Silvano, la prima sera che ci incontrammo, mi disse che era ancora laggiù. Lo sguardo delle persone che incontrai la prima volta al Ponterosso... In seguito elabori, dai un senso a questo.

Témoins Lisbonne aout 00 è costruito su questo principio. Per me era il sopralluogo per un film da fare, di cui non conoscevo la storia. Nella storia c’entrava il fatto che stavo a Lisbona, con la mia compagna incinta, che tra pochi mesi sarei diventato padre. C’entrava questo, ma non volevo farne un diario intimo, e ho fatto di colui che filma – io – il personaggio alla terza persona del film, come per instaurare una finzione. Colui che filma, che diventerà padre, che proprio perché filma è invisibile – e che cosa filma? Filma la stazione ferroviaria, la stazione marittima, la gente che passa, pendolari, persone in attesa, persone perse, persone invisibili – come lui. Filma tutte queste persone che non conosce pensando che sarà padre – e che ognuno ha, o ha avuto, un padre.

Filma e ascolta. Prende appunti. Nomi, situazioni, idee. Questi appunti sono nel film (ed è stata la prima volta che ho sperimentato questa forma con testi scritti che poi ho utilizzato, in maniere diverse, in altri miei film). Tra queste storie che intravede, che può cercare di immaginare, c’è la cronaca (vera) dell’assassino dei treni, che fu arrestato proprio in quella stazione dove filmava, in cui si nascondeva, invisibile (invisibile come colui che filma). E l’assassino fu reperito e arrestato proprio perché da quella stazione telefonò a casa, per sentire la voce di suo figlio. Altre storie, di invisibilità: l’uomo senza volto, che avevo visto aggirarsi nei dintorni. O un nome, scritto sui muri, Micas, qualcuno che sembrava scomparso. Tra i volti della stazione io cercavo questo ragazzino scomparso. Come se da ognuno di questi spunti mi lasciassi andare a un qualcosa di romanzesco, il grande romanzo infinito delle vite. E poi ci sono persone su cui lo sguardo si sofferma: il venditore di alberi di natale in plastica (era agosto) alla Feria da Ladra (il Porta Portese di Lisbona). Un uomo che si imbarca sul traghetto e che seguo per poi perderlo. Una donna, di un’eleganza antica, che dà da mangiare ai piccioni sbriciolando con i tacchi le fette biscottate... Sono momenti che ti fermano, ti trasportano altrove, dove comincerebbe un’altra storia. E in un certo senso, tutto il dispositivo che crei, la narrazione, i romanzi immaginati, ti servono per prepararti a cogliere queste epifanie del reale.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 13/04/2015

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