Conferenza stampa del Leone d'Oro alla carriera Frederick Wiseman
Il grande cineasta statunitense si racconta ai giornalisti parlando del confine tra fiction e documentario (o forse della sua assenza), delle sue passioni, del mondo di oggi e dei progetti futuri

A Venezia ieri è stato il gran giorno di Frederick Wiseman, che ha ritirato il Leone d’Oro alla carriera imponendosi quale primo documentarista della storia a potersi fregiare di tale riconoscimento. Qualche ora prima, il grande regista americano si è prestato alle domande dei giornalisti presenti nella conferenza stampa moderata dalla selezionatrice Giulia D’Agnolo Vallan. Un’occasione nella quale Wiseman è tornato sul suo cinema d’indagine, sulle sue passioni, sull’origine della sua arte e sulla formazione che l’ha accompagnato in un’esistenza intellettuale che sembrava orientata a dire il vero verso ben altro. Ponendo l’accento, in maniera in fondo non troppo sorprendente per chi ne conosce davvero lo spirito, sulla natura romanzata del suo cinema. “Non vedo motivo per il quale un documentario non possa essere allegro, triste o tragico come un romanzo o come un’opera teatrale. Io penso solo al film, non certo alla divisione tra fiction e documentario, il quale una volta si pensava potesse avere solo la funzione di segnalare ciò che andava fatto per essere delle persone socialmente utili, come le medicine corrette da prendere o roba del genere. Detesto i documentari educativi, per quel che mi riguarda. Io ho sempre cercato di fare film dalla struttura drammatica, il mio modello è la fiction, il romanzo. Ho cominciato quando avevo cinque anni, e ancora oggi leggo moltissimo. Cerco sempre di portare quello che leggo nei miei film, i racconti in cui imbatto, ciò che mi piace. Se mi fa piacere che si dica che i miei film somigliano a dei romanzi? Ma certo che sì, ne sono onorato, direi".
Il focus del discorso si sposta allora sul passato parigino di Wiseman e sui suoi studi giurisprudenziali. “Quando vivevo a Parigi filmavo in Super 8. Era la metà degli anni ’50, c’era la guerra di Corea a quel tempo. Odiavo legge, i primi anni non ho fatto che leggere romanzi, o comunque qualsiasi cosa che non fosse quei testi scritti male e affatto interessanti. Poi mi sono deciso a fare qualcosa che mi piacesse davvero. A Parigi a quel tempo c’era un’aria delicata, dominavo le fantasie parigine di Hemingway e Fitzgerald, vita di fantasia e realismo puro e semplice si univano”. Wiseman dal canto suo si è mantenuto sempre un alieno, anche rispetto al nucleo dell’epoca dei documentaristi newyorkesi. "E’ vero, loro stavano a NY, io a Boston. Ma d’altronde io sono un solitario, uno cui piace andare per la sua strada e ancora oggi non sono affiliato a nessun gruppo, a dire il vero conosco pochissimo di ciò che accade all’esterno del mio lavoro. Non ci sono differenze rispetto al passato oggi, solo l’attrezzatura, con le telecamere digitali e il montaggio digitale, nessuna evoluzione d’altro tipo". Sui distributori il garbo di un uomo tranquillo e distaccato come Wiseman si tramuta in sorridente, pacata ironia, capace di dissimulare con la dolcezza un risentimento palese e avvelenato: “Produco io stesso i miei lavori perché i soldi di fatto non bastano mai e li distribuisco perché sono rimasto fregato così tanto dal distributore del mio primo film da rimanerci scottato per sempre: con un margine del 100% non ho nulla da perdere, la situazione è molto più facile. Da quella che è la mia personalissima esperienza, con i distributori si viene sempre fregati, per mantenersi su termini delicati” .
Sui colleghi, Wiseman è ironico, ma anche un po’ amaro: “Quando i documentaristi si riuniscono parlano solo di odi e gelosie rispetto ad altri che fanno più soldi, è l’argomento principale di conversazione, così noioso a dire il vero che conviene non prenderlo proprio”. Sul metodo di lavoro, le idee del regista sono chiarissime: “Ci si deve isolare per pensare alle esperienze fatte nei luoghi che si vogliono riprodurre e di cui si cerca il senso e l’intimo significato. Il montaggio poi serve a vagliare ogni gesto, ogni comportamento, a passare al setaccio tutto quanto. Un film emerge per davvero e salta gli occhi quando la parte tecnica incontra la comprensione del comportamento. A me personalmente non mi piace fare interviste né l’oversound, perché credo interferiscano nella relazione tra spettatore ed esperienza. Io voglio solo che lo spettatore sia presente come io ero presente nel momento in cui ho girato il film. Dopotutto in un’opera cinematografica non devono funzionare solo le componenti relative al significato letterale dell’opera, ma soprattutto quelle che fanno capo alla percezione astratta e letteraria di ognuno".
Enrico Ghezzi, che era presente in sala, oltre a definirlo uno dei più grandi poeti, autori e artisti dell’età del cinema (definizione roboante ma azzeccata, romantica, suggestiva), gli chiede anche se è stanco di sentirsi definire solo e soltanto come il più grande documentarista del mondo, definizione a suo dire alquanto riduttiva e mortificante. "Non posso pensare a come esser stanco di sentirlo dire, ma non me ne occupo poi tanto". Interpellato sulla situazione della realtà mondiale che spesso è più avanti rispetto a qualsiasi forma di girato, dall’Isis in giù, Wiseman si mostra non poco scorato: “Un adulto con una dose anche minima di intelligenza non può non essere preoccupato. Non navigo tanto in Internet, cosa che probabilmente è dovuta alla mia età anagrafica, ma leggo sempre i giornali. Sono preoccupato, si cerca di fare qual che si può, non resta molto altro”. E Wiseman per l’appuunto continua, imperterrito sulla sua strada, instancabile nonostante gli 84 anni di età. “Ho finito di girare un film su un quartiere di Queens a New York, in cui in 40 edifici si parlano 160 lingue diverse, dal sud-est asiatico alle famiglie bianche tradizionali: un po’ come vivere a fine XIX secolo a NY, ma è il nuovo volto dell’America, e quel che accade lì è ben presente in forma analoga anche in altre città del mondo. Ma la gente crede che solo Obama sia il nuovo volto dell’America...”. E non finisce qui, perché il regista si dimostra ancora una volta veramente infaticabile e saluta anche i presenti con una battuta. “Vorrei fare dal mio esordio Titicut Follies un balletto, è un argomento che mi interessa da sempre, ho fatto anche dei film in proposito (La Danse - Le Ballet de l’Opéra de Paris, ndr). Sto lavorando con un coreografo, m ho accettato di farlo solo se mi si assicura che sarò io il primo ballerino…”.