Class Enemy

Già vincitore a Venezia 2013 del Premio FEDORA, il bell'esordio di Rob Bi?ek torna al Lido correndo per il Premio Lux

La logica del capro espiatorio, è risaputo, si configura nel tempo e nello spazio come frangiflutti su cui deflagrano una serie di potenze nate e cresciute all’interno di un tessuto tanto individuale quanto collettivo. È l’ultimo approdo di una corsa esasperante il cui percorso è delineato dal moltiplicarsi di energie – conscie e inconscie – che, scontrandosi l’un l’altra, si ritrovano a cooperare, ad accrescere la potenza di un’onda destinata a impattare con tutta la sua violenza su ciò che ostacola il proprio fluire. Tale scontro ne esautora la forza, ne annichilisce il portato; appalesa la sua natura eterogenea, dialettica, nella peggiore delle ipotesi ambigua e mefistofelica.

Che queste energie siano positive o siano negative conta poco in termini di effetto prodotto: l’onda che si scontra con la roccia ne esce atomizzata, destrutturata. Deformata nell’attimo stesso dell’impatto, a seguito del quale deve riconfigurare le proprie forze per ricominciare a fluire.

Il regista classe ’85 Rok Bi?ek nel suo primo lungometraggio Class Enemy, vincitore al Festival di Venezia del 2013 del Premio FEDORA e presentato di nuovo nel 2014 in seguito alla candidatura per il Premio Lux, adotta il tema del capro espiatorio, inserendolo all’interno delle mura di una scuola media superiore slovena.

L’istituzione scolastica nel film riporta in scala ridotta le dinamiche del mondo esteriore. Si nasce, si vive e si muore in un universo brulicante, in cui si attivano relazioni le cui derivazioni modificano lo spazio, i singoli individui e la collettività; in cui si genera il conflitto, si entropizza fino all’esasperazione, per poi rientrare nei ranghi. Risulta a questo proposito interessante (e azzeccata) la scelta del regista di ambientare il suo racconto esclusivamente all’interno del liceo, come a rispondere alla necessità di mettere in scena un microcosmo speculare al mondo esterno. Ma il macrocosmo che si estende oltre le mura scolastiche non si caratterizza come spazio negletto, bensì come sovra-determinazione dell’universo apparentemente autonomo del microcosmo liceale.

Gli individui – la classe protagonista del racconto – si fanno carico delle potenze esterne, assorbono gli stimoli dell’universo che li circonda, si confrontano con il mondo storico dell’esterno (sia a livello di storia individuale sia collettiva) e ne inglobano sogni, moti d’animo, sconfitte, frustrazioni, per poi trasportarli all’interno del mondo a-storico della classe. Tale spazio è terreno fertile per la deflagrazione dell’ordigno a orologeria, attivata dall’irrompere di due potenze negative: la coercizione e la morte. La prima sintetizzata dalla figura austera del docente Robert (interpretato dall’ottimo Igor Samobor), inserito nell’organico scolastico a fronte di una sostituzione per maternità, la cui severa e incondizionabile didattica contribuisce a far esplodere la frustrazione, la sfiducia e il malcontento nei suoi discenti. Con il suo arrivo emergono, in tutta la loro dirompenza, le ripercussioni del macrocosmo esterno sul microcosmo scolastico. La seconda potenza negativa, la morte, si presenta inizialmente come riflesso traumatico del mondo esterno: uno studente, Luka (Voranc Boh), ha subito il dramma della perdita della madre; e successivamente come evento traumatico nel microcosmo liceale: Sabina (Daša Cupevski) si toglie la vita a seguito di una strigliata del severo professore.

La “comunità” si mette in moto attivando un meccanismo di azioni esemplari, simboliche fino al limite del rituale, finalizzate all’ostracizzazione del professore, all’immolazione del capro espiatorio. Nel momento in cui viene individuato il bersaglio contro cui scagliare il giustificato sdegno della comunità/classe, le istanze anti-coercitive e umanizzanti che avevano spinto tale collettività sembrano stagnarsi in cieca chiusura, vengono innalzate mura in cui il noi diviene roccaforte inaccessibile agli altri, assume toni di autocompiacimento e spettacolarizzazione che appaiono tristemente patetici dal momento che partono da una tragedia reale, concreta, che non tollera strumentalizzazioni. La comunità si trascina quasi in toto in un’incondizionata chiusura nei confronti degli apporti esterni, perde legittimità, si raduna intorno al suo capopopolo Luka e diviene uno spazio sempre più esclusivo, non più capace di riconoscere chi è disposto ad ascoltare le proposte di cambiamento avanzate. Per utilizzare un termine mutuato da Jacques Ranciére, la comunità raggiunge un punto di non ritorno e si fa horde brutale.

Il primo lungometraggio del cineasta sloveno mostra i pregi e i difetti dell’opera prima. È palpabile l’impellenza autoriale in fase di scrittura e di messa in scena, la buona caratterizzazione dei personaggi e il lavoro sugli attori. Pecca solo a piccoli tratti di ridondanza narrativa e, aggiungerei, lessicale, ma a prescindere da questi piccoli limiti resta comunque un film compiuto. Una nota di merito va all’utilizzo sapiente di una macchina da presa che sembra rispondere a una flessuosità spettrale, come mossa dal moto respiratorio soggettivo dello spettro di Sabina. Quello spettro che nella scena finale si muove tra i compagni a bordo della nave che li accompagna in gita scolastica, in mezzo a una collettività tornata nei ranghi, la cui forza sovvertitrice si è neutralizzata in una scia.

Autore: Paolo Scire
Pubblicato il 03/09/2014

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