Buoni a nulla
Fuorviato da un'eccessiva ricerca della levità De Gregorio manca l'obiettivo di un'opera ironica e acuta, offrendo al suo posto una piatta sequela di situazioni già viste

Usciti dalla visione di Buoni a nulla si resta un poco perplessi, incerti su come definire la costruzione narrativa del film. Incerto sul limite tra slapstick e commedia, l’opera di Gianni Di Gregorio traballa in cerca di una propria identità, ma i margini del film sono troppo slabbrati per contenere una struttura coerente. L’idea di base era certamente interessante: rappresentare la parabola dell’uomo mite costantemente soggetto alle prevaricazioni altrui, e il suo conseguente tentativo di rivalsa, descrivendo una particolare filosofia di vita. Nella vicenda di Gianni – ennesimo alter ego del regista - impiegato prossimo alla pensione che si vede costretto ad accettare altri tre anni in azienda a causa della recente riforma lavorativa, c’è tutta la potenziale amara ironia di una secolare pazienza tradotta in continui vessamenti. Laddove modernità significa prepotenza, l’antico stile della calma, dedito al godimento dei piaceri o diversamente, all’incontro verso gli altri, è sinonimo di debolezza e stupidità, anche quando si nasconde nelle persone più preparate o più gentili. Gemello involontario di Gianni è Marco, compagno nella nuova sede di lavoro, che attempone ai propri bisogni le esigenze altrui, sobbarcandosi il lavoro di colleghi altrimenti incapaci di eseguire i propri compiti. In seguito a uno svenimento Gianni decide di scoprire da quale malessere è affetto, per concludere che il problema è mentale e non fisico. Per guarire inizia a dire i no che si è sempre tenuti chiusi in bocca, imparando a trarre il buono dalla situazioni anche quando ciò significa mettere in difficoltà gli altri. La ripresa è immediata: sul piano lavorativo e sentimentale tutto si volge al meglio, motivo per il quale l’uomo esaltato dal proprio successo prova a convertire al proprio metodo l’amico collega, ottenendone però risultati ben più deludenti; ma la reiterata abitudine a mostrarsi sicuro di sé rischia di mettere in crisi proprio i rapporti personali che aveva aiutato a costruire.
Qui e lì si coglie in Buoni a Nulla una parvenza di sincero sentimento, purtroppo sopraffatto da un’eccessiva tendenza macchiettistica che propende per il ritratto stereotipato, dal tratto grosso, di personaggi troppo caricati per essere verosimili. La vecchia vicina di casa petulante, l’impiegata sensuale che affida il proprio lavoro ai colleghi che ne subiscono il fascino, vuota (ma non troppo), il dentista santone-psicologo, l’amico buono ma debole, sono tutti caratteri che richiamano l’immaginario dello spettatore ma non offrono nulla più di un mero spunto di intrattenimento. Ma anche qualora si voglia ascrivere al film di De Gregorio una funzione umoristica bisogna però riconoscervi in questo caso un uso troppo scontato delle classiche figure caricaturali, offerte da interpreti costretti a recitare ruoli monotematici. Ed è un peccato, perché nei protagonisti del film era possibile intravedere una possibile evoluzione del discorso sull’anima di un popolo, che nella sua mollezza trova sia il suo pregio che il suo limite. Al suo posto un’opera ugualmente rilassata, che si compiace giusto di rallegrare con leggerezza il suo pubblico; solo che divertimento e interesse sono ora diluiti qua e là.