Berberian Sound Studio

Berberian Sound Studio è davvero quello che si può definire un film per veri amanti del cinema. E non certo per delle esasperazioni formali che albergherebbero al suo interno e che dunque sarebbero in grado di renderlo particolarmente apprezzabile per quanti concepiscono l’arte cinematografica come altissimo esercizio dell’intelletto, scomponendola pertanto nelle sue componenti stilistiche e nei segni semantici concreti che la caratterizzano.

No, Berberian Sound Studio è piuttosto un piccolo, ambizioso film che parla di cinema in modo spassionato e nella maniera più fisica che è possibile immaginare, ponendolo al centro di tutto e di se stesso. Ciò che vi emerge è un amore incontrollabile e febbrile per la materialità del processo, soprattutto manuale, che porta alla creazione del prodotto filmico finito, e in particolar modo di una delle attività fondamentali di quella che è la grande catena di montaggio della lavorazione cinematografica, sommatoria organica di diverse maestranze come nessun’altra arte: il montaggio, e nella fattispecie il montaggio sonoro. Un aspetto di solito inevitabilmente snobbato ma che in film più minuti ma anche solo più ricercati (proprio come questo, per il quale vanno bene entrambi gli aggettivi) assume spesso un peso decisamente rilevante. Difficile poi immaginare un film qualunque di David Lynch, tranne giusto uno o due episodi isolati che si contano sulla dita di una mano, senza tenere a mente il bellissimo e particolare uso di quell’immancabile sonoro perturbante così tipico dello stile del regista di Strade perdute. O pensare a C’era una volta il West di Sergio Leone senza quell’orchestrazione sinfonica di innumerevoli micro-rumori che rappresenta probabilmente una delle maggiori vette della storia del cinema per quanto concerne l’uso massiccio della sonorizzazione. Ecco, Berberian Sound Studio ci fa riscoprire soprattutto, casomai l’avessimo dimenticato, l’affetto per tutto ciò che oltre a vedere si può anche percepire col senso dell’udito, anche senza necessariamente ascoltare con attenzione e perizia, quando si fruisce un prodotto audiovisivo (perifrasi per “film” che in questo caso non si limita a essere una pedanteria da glossario, ma viene ad assumere una sua precisa valenza dinamica).

Negli anni settanta, Gilderoy (Toby Jones) è un ingegnere del suono inglese che giunge in Italia per lavorare agli effetti sonori di un film horror, tale Il vortice equestre del “maestro” Giancarlo Santi, uomo impenetrabile che si circonda di donnine ed è amabilmente insopportabile. In quello studio di registrazione, sempre più perso nel suo lavoro e ormai irrimediabilmente compromesso con la visione malata e fuori di testa del film di Santi, il protagonista si rintanerà senza più essere in grado di venir fuori da un mondo di inquietudini malsane e suoni angosciosi, recluso in uno studio di registrazione dai connotati sempre più espressionisti e deformi. In un film che non può prescindere dalla post-produzione dell’audio, non stupisce quindi che il suono si connoti a tutti gli effetti come un personaggio aggiunto, avvolgente e attivo, mai e poi mai esente dal condizionare tanto le atmosfere quanto il susseguirsi degli eventi. L’opera seconda di Peter Strickland, membro dei Sonic Catering Band e dunque avvezzo a questioni sonore anche per deformazione professionale, non a caso ha registratori e pellicole continuamente in primo piano, come ad accentuare la dimensione ordinaria, artigianale e quasi manifatturiera della lavorazione applicata alle sonorità, con angurie – giusto per ricorrere all’esempio tra tutti più evocativo – che vengono martoriate per ottenere l’effetto di uno squartamento. L’esasperazione in chiave claustrofobica potrebbe da un certo punto di vista condurre il film verso territori impervi e pericolosi, in zone paludate in cui diventerebbe difficile distinguere il bombardamento sensoriale dell’esperimento alla Lucio Fulci (nella migliore e più arty delle ipotesi) dal pastrocchio in piena regola. E invece il rincorrersi di stimoli funziona nonostante qualche inevitabile inciampo, in una sottile ode d’amore a un modo ancora romantico e maneggevole di fare il cinema, lontano dall’effetto di turno da sovrapporre nell’asetticità industriale e serializzata di uno di quei grossi studios, dove molto spesso si è ormai perso ogni legame col buon vecchio cinema artigianale e troppo di rado si ragiona col cuore.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 10/02/2015

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