Arirang

Il punto di non ritorno che segna una svolta radicale nella fimografia di Kim Ki-duk

Colpite con le bottiglie, tagliate con l’ascia e sparate proiettili.

Spesso la solitudine porta alla disperazione, altre volte è l’unica arma con cui difendersi. Kim Ki-duk, assente da tre anni dalle scene, si racconta in un’auto-celebrazione che demistifica ogni credo. Telecamera alla mano, il regista sudcoreano mette in atto l’intuizione pasoliniana in una drammatizzazione della vita attraverso lo sguardo meccanico, testimone selettivo e inquisitorio. Tutto questo è Arirang, la messa in scena del proprio tormento interiore. Dopo le riprese dell’ultimo lungometraggio Dream, il regista abbandona il set per lo shock subito in seguito ad un incidente, che aveva visto un’attrice scampata miracolosamente alla morte. La natura selvaggia, il clima rigido e l’assenza di qualsiasi contatto umano sono tutto quello che resta ad un uomo deciso a riprendere se stesso in una lunga dichiarazione sul senso della vita e del fare cinema.

Kim Ki-duk, al vertice di un’affermata carriera, con un seguito di premi e riconoscimenti e una quindicina di opere all’attivo, delinea tutto il suo malessere in un conflitto tra carne e spirito che lo conduce ad una lotta impari con un sé che non riconosce più. La temperatura gelida lo ha costretto a costruire una tenda all’interno della baita, come a voler sottolineare ulteriormente lo stato di isolamento forzato. Il regista, profondamente afflitto, denuncia un disagio esistenziale che lo mette di fronte al mondo, un mondo che sembra schiacciarlo. Costruisce arnesi, interroga se stesso, inveisce contro i colleghi e si scusa con i fan, in una confessione di 100 minuti che rifugge ogni classificazione.

Arirang è un home movie insolito, un dramma, un documentario, un film fantastico: il disvelarsi di una vita che tradisce tutto il suo artificio. Il montaggio espressivo, volto a confermare un’autoanalisi lucida e sincera, l’uso consapevole di luci e profondità di campo, l’alternanza di campi lunghi e primi piani articolano la costruzione di una scena che lascia veicolare la particolare visione di un artista in crisi. Nell’arco di tutto il film c’è solo una presenza, quella di Kim Ki-duk, che è regista, attore e uomo, riflesso allo specchio e problematizzato in una frammentazione di piani e inquadrature che ne restituiscono la dissociazione dell’identità. Artista e spettatore di se stesso, quest’uomo si lascia penetrare e svuotare in un processo che lo vede inquisitore e inquisito, il corpo perennemente raddoppiato da un’ombra che gli sfugge. L’accentuato cromatismo che divampa dallo sfondo freddo di una campagna deserta contrasta fortemente con il nero da cui emerge il volto dello stesso Kim Ki-duk, nell’autoanalisi che conduce attraverso un occhio capace di continua falsificazione. Il jump cut di alcune scene evidenzia vivamente la schizofrenia che attraversa l’anima del regista, declinata in un botta e risposta dissociato. In un atto estremo di esorcizzare i propri demoni attraverso l’annullamento, l’uomo si cala in un territorio nuovo che lo pone al centro dello sguardo. La spudoratezza narcisistica, fonte di ispirazione e approfondimento autocritico, testimonia tutta la fragilità umana e l’instabilità psicologica di un personaggio complesso in un momento di conflitto radicale.

Difficile da interpretare, questo tormentato lungometraggio è la vita che si scontra con la morte, o meglio, la vita che si afferma attraverso la morte, quella vita che è “sadismo, auto-tortura e masochismo”. Nella disposizione maniaco-compulsiva di oggetti silenziosi si rivela tutto il mondo dell’artista, a ricordargli, ancora una volta, chi è: la macchinetta del caffè, la sedia, una bottiglia di birra, i premi vinti, le sceneggiature dei propri film, le lunghe carrellate sulle locandine. Il minimalismo è il filtro con cui guardare alla propria anima, per restituire una verità che possa essere compresa, attestando il ritorno in un sistema che si è cercato di combattere. Regista di emozioni e impressioni sul mondo in continuo cambiamento, Kim Ki-duk passa dalla logica frettolosa dei primi lavori, trattati come materia grezza, al lucido distacco che non viene incrinato neanche da quell’ultima pallottola riservata a sé. Il suicidio simulato restituisce la consapevolezza di una padronanza tecnica e artistica che ritrova la sua forza nel mettersi a nudo.

Una fuga nell’onirico a confermare la marca stilistica di uno degli autori più all’avanguardia del cinema contemporaneo. Il continuo dialogo con sé è complice di un percorso che ha termine nell’identificazione con il Grande Altro di lacaniana memoria. Solo ora è possibile la (ri)conquista del linguaggio, quello cinematografico. Motore, partito. Azione. Solo ora, compiuto quel processo di catartica riforma, che è insieme umana e artistica, Kim Ki-duk può stringere commosso il sognato Leone d’ora per l’ultimo Pietà. Intanto, risuona ancora un antico canto, Arirang; in un ultimo grido disperato dell’immagine che si sfoca. Arirang, una parola che è desiderio e solitudine. E forse, è nero che diventa bianco.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 18/02/2015

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