
Iniziamo col porci una domanda semplice, ma nel caso di questa piccola co-produzione franco-belga, per niente banale: Amer (2009) della coppia (anche nella vita) Bruno Forzani ed Hélène Cattet che cosa è? Non è un film, narrativamente parlando, e chi questo non lo sa al momento di sedersi davanti allo schermo, probabilmente, andrà incontro ad una delusione amara (tra l’altro questo è il significato del titolo: amarezza).
Nei giorni che hanno seguito la sua prima al festival di Sitges ’09, i termini per tentare di definire questo prodotto si sono sprecati: music video, neo-giallo, astrazione postmoderna, video arte e poi in maniera dispregiativa anche eterno trailer, campionario di tecniche visive. Tutte etichette accettabili ma ciò nonostante incomplete. Nei titoli di testa già sembra incapsulato quello che concettualmente sembra essere il perno di Amer: split screen che tripartisce le immagini, macchina da presa che danza con ossessivi primi piani su occhi e dettagli somatici, il tutto puntellato dalla splendida colonna sonora de La coda dello scorpione composta da Bruno Nicolai. Con questa apertura la coppia di neo-registi informa i propri spettatori di quanto è specifico e rarefatto il mondo che andranno a dipingere e che, se li si vuole seguire fino in fondo, una conoscenza dell’universo da cui hanno attinto è necessaria. I novanta minuti si dividono in tre parti nettamente separate tra di loro dove in ognuna è messo in scena un momento della vita della protagonista Ana: l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. In ciascun momento la tensione viene generata dall’apprensione per un minaccioso ignoto palpabile ma invisibile, in termini esclusivamente visivi e (meta)cinematografici. I due giovani registi infatti non solo omaggiano quel filone cinematografico italiano conosciuto come “giallo” ma ne teorizzano emulando non le scene specifiche (Amer , se non per le musiche, non risulta mai citazionistico) ma i significati cinematografici di quel cinema il cui legame intimo tra sesso e morte era il suo vero cuore pulsante. La totale assenza di trama può tediare i più ma è molto utile per capire realmente la grammatica registica di autori come Dario Argento, Massimo Dallamano, Emilio Miraglia, Luciano Ercoli ma soprattutto Sergio Martino (Lo strano vizio della signora Wardh sembra pervadere un po’ tutta la pellicola). Un manoscritto visivo sull’essenza di un cinema che sembrava reinterpretare in chiave pop le ossessioni erotico-morbose di migliaia d’italiani.
Le sequenze sono quasi sempre assestanti con una forza erotica e violenta il cui culmine viene raggiunto proprio nello straziante finale. Nulla è casuale e gli ingranaggi sembrano patologicamente calcolati al millesimo, ma va detto che tutto converge ad un punto focale di tensione tra erotismo e ansia molto vicino alla rottura. Il crollo di nervi e pazienza dello spettatore è sempre dietro l’angolo. Questo incubo vintage non scende mai a compromessi e fa dell’esasperazione il suo punto di forza: i progressivi slittamenti fotografici che comunicano gli stati d’animo della protagonista, i dialoghi prima scarni e poi inesistenti, la macchina da presa sempre in movimento. Come già detto, il duo Forzani/Hattet rinunciano quasi totalmente ad una trama a favore dello sviluppo di una tensione emotiva dettata puramente dallo stile, immagini plastificate e spartiti musicali che dimostrano una conoscenza profonda del nostro cinema di genere. (Bellissimo l’utilizzo del brano di Stelvio Cipriani tratto da La polizia chiede aiuto). Cinema scomparso…Amer.