Amen

L’uno di Arirang si sdoppia, consentendo a Kim di liberare definitivamente il proprio cinema.

Se si prendesse in blocco il cinema di Kim Ki-duk, al di là degli esiti di ogni singolo film, si potrebbe ricostruire la parabola esistenziale di un uomo: dai sintomi liquidi di un dolore (L’isola) al lutto inconciliabile che stravolge i contenuti di un intero film (Dream); dal rifugio dolente dal cinema e dalla società (Arirang) alla ricostruzione moralistica di una giustizia (One on One).

Le fasi della vita si susseguono, richiedendo ai formati cinematografici, ai supporti tecnici, all’immagine stessa, di alterarsi e di infrangersi: si pensi alle suggestive pellicole che godevano di primavere, estati, autunni e inverni. Cosa ne è rimasto? Cos\'è successo? Un lutto (l’incidente sul set di Dream) ha fatto dissolvere l’ipotesi di un cinema capace di scoprire la bellezza all’interno di meccanismi di potere e violenza. Solo il digitale, con le sue mancanze auratiche, con la sua sporcizia a base di pixel, avrebbe potuto aderire alla rabbia, alla febbre sanguigna e all’ardore di un autore che piangeva.

La verità è che Kim Ki-duk, per continuare a fare film, ha dovuto dimenticare il cinema: disimparata la grammatica, si è affidato unicamente al proprio dolore. E’ divenuto sporco, scorretto, sbagliato, talmente viscerale da farsi nudo. Sondando il legame indissolubile che lega la carne al digitale, Arirang ha rappresentato la morte-rinascita di un autore chiuso in una capanna, tutto proteso verso la realizzazione di un’opera realizzata da solo. La sua rivoluzione coincide con l’insostenibile, solipsistico ritorno all’Uno. Tutto ciò che c’è di sgradevole in Arirang risiede appunto nella sua uni(ci)tà, che non ha paura di farsi patetica, risibile e perfino idiota davanti all’obiettivo cinematografico.

Eppure, contro ogni aspettativa, l’invisibilità autoimposta ha rischiato di fare di Kim un fenomeno mediatico, un eremita pubblico, un asceta spiato dal grande occhio del mondo: la capanna si fa confessionale, l’atto privato finisce per essere deformato dalle prospettive perverse e virali del reality show. Il vero Arirang non è qui, non può essere sedentario, dev’essere nomade, sfuggente e, soprattutto, deve intercettare un veicolo che gli permetta di traslarsi, nascondersi e infine di negarsi.

Questa premessa ci pare indispensabile per fornire le coordinate filmico/esistenziali da cui prende le mosse Amen.

Progetto che nasce sottovoce e in punta di piedi, film piccolissimo che porta Kim non solo fuori dalla Corea, ma anche da tutto il suo cinema precedente, sovvertendone i canoni estetici in maniera ancora più radicale rispetto ad Arirang. Kim Ki-duk vaga, senza esser riconosciuto, in quella stessa Europa che l’aveva tanto osannato. Ciò di cui ha bisogno è un rivestimento, un doppio con cui superare la nudità di Arirang, un alter-ego che lo possa finalmente camuffare. Deve negare la sua immagine per tornare a far cinema.

Amen si trasforma così nel seguito ideale del film precedente, sua negazione e, soprattutto, suo logico sdoppiamento. Il dolore di Kim si fa tangibile perché sublimato nell’altro, fino ad assumere la forma irregolare di un cinema emancipato. Kim Ki-duk diviene il suo gemello femminile: una donna coreana, turista in terra straniera, che vaga per le strade di Parigi o avanza lungo la laguna veneziana, alla ricerca di un uomo invisibile. Ma Kim è anche il secondo personaggio del film: una figura misteriosa munita di maschera a gas che aiuta in modo apparentemente gratuito la protagonista.

L’uno rompe le barriere eremitiche in cui si era rifugiato e si fa due: Amen parla infatti della possibilità di dialogo, del ritorno al mondo, della ricerca dell’altro come unico codice esistenziale, della gratuità come motore delle relazioni umane. Tanto Arirang era una solitudine in mostra, quanto Amen si struttura come un’opera contrassegnata da una precisa volontà di propensione, di apertura, di abbraccio nei confronti della realtà esterna.

In occasione della sua “vacanza” europea, Kim fa convergere un semplice filmino delle vacanze con una prassi che più chenotica non si potrebbe. E’ come se l’autore, confrontandosi con l’Europa e la sua cultura, volesse ricoprire il suo alter-ego di una logica cristica. La propensione chenotica coincide infatti con lo svuotamento di sé: l’atto ascetico dello spogliamento si configura come unica possibilità redentrice.

Non è irrilevante, infatti, che Kim e il suo doppio femmineo assegnino la loro salvezza a delle icone cristiane, mentre visitano cattedrali sacre alla ricerca della luce. Il piano esistenziale slitta verso quello sacro fin dal titolo, che fa assumere a tutta l’opera la valenza di una preghiera. La ricerca dell’altro, l’erranza, gli atti di carità da parte del misterioso inseguitore/benefattore, forniscono una lettura parabolica di morte-resurrezione, di dannazione-salvezza. Nella ricerca disperata di una fede come mezzo di assicurazione su questa terra risiede il senso del film-viaggio. La meta, l’uomo da trovare, l’altro cui accedere, è sempre irraggiungibile e ipotetico, nega la sua stessa presenza salvo poi tradursi nell’immagine dello sconosciuto caritatevole (sebbene munito di maschera a gas). In questo senso può essere letta anche la gravidanza della protagonista: la nuova vita, che può germogliare solo dal dolore, è un elisir prezioso capace di purificare dai mali del secolo.

Questo svuotamento investe l’intera narrazione mediante meccanismi di radicale, indissolubile sottrazione: non sappiamo nulla della protagonista, solo che è in viaggio alla ricerca di qualcuno/qualcosa che le sfugge. Con estrema coerenza anche i mezzi e i supporti del film sono quelli da cinema povero. Kim sembra ripeterci che bisogna diventare analfabeti per tornare a sentire il mondo, a lodare la vita, a ringraziare per ogni istante di visione. Così svuota di cinema Amen, perché gli interessa solo l’atto stesso di vedersi con i propri occhi: nega qualsiasi abbellimento, qualsiasi pleonasmo, qualsiasi supporto oltre alla camera. L’unica protesi da poter usare è la propria mano. A pensarci bene il viaggio in Europa di Kim sembra un film à la nouvelle vague, con la stessa freschezza, la stessa ebbrezza di movimento, lo stesso ardore gentile. Il linguaggio si fa frazionato, filamentoso, continuamente interrotto nel suo restituire piccoli, (in)essenziali frammenti di vita. La sporcizia invade anche la pista sonora, priva di qualsivoglia dissolvenza acustica, di qualsiasi accomodamento, ma sgradevole e spezzettata come mai.

Con Amen, Kim ritrova l’estrema libertà di chi può girare al di fuori di qualsiasi logica industriale e imprenditoriale. Alla fine rimane solo il gesto filmico, scevro e cristallino, libero da qualsiasi mediazione. E nell’atto di riprendere la propria ombra femminile, Kim continua a inscenarsi, scoprendo che ogni immagine riflette la sua figura capovolta. Ogni immagine è doppia, ogni uomo una donna, ogni viaggio un abisso.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 08/12/2014

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