Venezia 72 / Krigen (A War)

Lindholm mette in scena un processo che diventa confronto tra il caos della guerra e la necessità di una dimensione morale, ma una debolezza di sguardo non permette al film di funzionare davvero.

Cercare di dare un ordine alla guerra è come aspettarsi di poter ricavare forme precise dall’acqua, puoi costringerla all’interno di regole e denominazioni e morali precostituite ma la sua natura intima è l’incontrollabilità, il caos informe e imprevedibile, la necessità di prendere decisioni che al momento e solo ad esso sembra debbano obbedire. C’è un senso di ingenua follia e assieme di assoluta necessità nell’intenzione di giudicare le azioni di guerra, uno scarto incolmabile che vede da una parte un contesto estremo e dall’altra l’urgenza di mantenere comunque, indipendentemente da ogni situazione, una dimensione morale. All’interno di questo divario si colloca Krigen (A War), storia di una decisione militare estrema e delle sue conseguenze.

Claus e Maria sono una giovane coppia danese. Si amano, hanno tre figli, ma vivono a migliaia di chilometri di distanza, lui soldato assegnato al servizio in Afghanistan e lei a casa a cercare di tenere unita la famiglia. A riunirli sarà una circostanza tragica: durante un’azione Claus decide di bombardare il sito da cui forse proviene il fuoco nemico, salva uno dei suoi dal morire dissanguato in attesa di soccorsi ma nel liberare la strada diversi civili tra cui alcuni bambini restano uccisi. La legge militare richiede a chi ordina un attacco aereo una verifica visiva della presenza dei nemici. Claus però ha agito spinto dalla necessità di salvare i suoi uomini, e ora non è più tanto sicuro di aver ricevuto davvero quella verifica.

Il miglior pregio del lavoro di Tobias Lindholm – giovane regista danese al terzo film, sceneggiatore del bel Il sospetto di Vinterberg – è l’intenzione di sollevare domande senza voler dare le risposte. Krigen è infatti un film che porta lo spettatore all’interno di una situazione priva di soluzioni facili. E’ evidente che ogni atto bellico svolto da un paese democratico debba essere soggetto a regolamentazioni, ma questo non risolve il caos primigeno del conflitto, e soprattutto lo scarto che si viene a creare tra l’azione e il giudizio. Lindholm non concede nulla al suo protagonista ma allo stesso tempo non ne giudica apertamente le azioni, mette in scena le conseguenza e – nel bellissimo finale – traccia una linea tra il giudizio del tribunale e quello interiore. Indipendentemente dall’esito del processo Claus dentro di sé conosce la verità, e con tale consapevolezza è costretto a continuare a vivere.

Purtroppo però Krigen non è solo questo, ma anche un film afflitto da lungaggini e banalità che ne minano di molto il risultato. Buona metà del film si divide tra la Danimarca e l’Afghanistan, la difficoltà di chi resta e l’orrore della guerra, ma nei fatti a venire a confronto sono tensioni familiari estremamente convenzionali e soluzioni belliche visivamente insopportabili. In patria Lindholm vorrebbe seguire la famiglia di Claus e raccontarne le difficoltà, ma riesce soltanto a portare sullo schermo una situazione superficiale, inutile nella generale economia del film. Le scene di conflitto d’altra parte sono appesantite dai peggio retaggi del Dogma, in particolare una camera a mano inutilmente nervosa e incapace di distinguere tra angoscia della visione e confusione fine a sé stessa.

Oltre a questo anche la seconda parte del film, quel processo che arriva inspiegabilmente così in là nel minutaggio, scambia la generica freddezza e asciuttezza di sguardo del cinema danese con una vacuità a volte evidente, troppo marcata per un film che ruota attorno a dinamiche importanti che non riesce però ad approfondire.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 07/09/2015

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