Venezia 72 / Afternoon

di Tsai Ming-liang

Non-documentario in forma di dialogo/monologo oltre le soglie del privato e del cinema, in cui Tsai Ming-liang e Lee Kang-sheng si confessano paure, sentimenti, angosce, ricordi.

Nella filmografia di Tsai Ming-liang c’è un prima e un dopo Stray Dogs, come una ferita insanabile o un lutto (dell’immagine, dell’amore, del rapporto filiale, dell’identità, di Xiao Kang). Il regista taiwanese ce lo conferma oggi, con la sua chiacchierata pomeridiana in compagnia di Lee Kang-sheng, filmata in unico appassionante piano sequenza di 137 minuti, inframezzato da tre stacchi in nero che contrappuntano la visione, concendendo brevi attimi di sospensione. Che il film sia girato tutto in continuità lo si capisce dalle comparsate della troupe e soprattutto dalla luce che filtra dalle finestre, progressivamente sempre più fioca, fin quasi all’oscurità. Ma senza risvolti psicologici, anzi, l’avanzare impercettibile e inarrestabile delle ombre dona al film un senso di armonia del tutto inaspettato, persino sorprendente nella filmografia dell’autore, sempre sull’orlo dell’abisso climatico, di una fine del mondo solo rinviata fuori campo. Pensiamo alle piogge torrenziali di The Hole, Goodbye Dragon Inn e in parte Stray Dogs, alla tempesta di sabbia e terra di I don’t want to sleep alone, oppure alla siccità di Il gusto dell’anguria, segni, minacce di una catastofe naturale incombente, causa ed effetto della temperatura emotiva dei personaggi, isolati nei propri spogli appartamenti mentre sognano vie di fuga, traiettorie nuove, quasi sempre amorose, che possano riscattarli dalla solitudine abissale che li rende ogni giorno prigionieri.

Non voglio dormire da solo, appunto. E infatti qui gli uomini sono due, insieme, da sempre. Tsai e Lee, coppia di fatto del cinema taiwanese, l’uno accanto all’altro sin dal primo bellissimo film, I ribelli del dio Neon, e poi via via fino ad oggi, in questo non-documentario in forma di dialogo/monologo oltre le soglie del privato e del cinema, in cui i due si confessano paure, sentimenti, angosce, ricordi. O meglio uno (Tsai) parla e si confida all’altro (Lee), come un ultimo estremo atto d’amore e di liberazione che varca i confini del corpo, delle pulsioni, abbracciando tutti i sentimenti possibili, dall’amore paterno a quello fraterno fino all’amore ideale, platonico, forse irragiungibile eppure ad un passo. Il melò nella sua forma più pura. Perché semplicemente senza Lee non ci sarebbe stato il cinema di Tsai. L’intero corpus filmico dell’autore si può considerare come una lunga dichiarazione d’amore e di necessità nei confronti dell’attore, motore e scintilla di ogni visione. Dietro ogni storia c’è il loro vissuto, dalle pulsioni di Tsai ai malesseri fisici o esistenziali dei due. La mente corre ai misteriosi dolori al collo che tormentavano il giovane Xiao Kang ne Il fiume, e che tormentano tutt’ora l’attore. Oppure al lutto paterno di Che ora è laggiù?, film concepito per alleviare la perdita che aveva colpito Lee nella vita privata e che curiosamente anticipa quella non meno importante – nell’economia del cinema di Tsai e più in generale della storia del cinema taiwanese – di Miao Tien, storico attore asiatico e volto ricorrente nella filmografia di Tsai, prima padre di Xiao Kang e poi fantasma (Che ora è laggiù) tra i fantasmi (Goodbye Dragon Inn), che sarebbe morto di lì a quattro anni.

In questo dialogo costante tra cinema e vita in cui i confini sono quanto mai labili, si stabilisce il primato del secondo termine sul primo. Ma non nella sterile contrapposizione tra verità e finzione, quanto piuttosto nel ruolo che si attribuisce al cinema, tappa necessaria e allo stesso tempo parziale di un’indagine filosofica, identitaria, esistenziale più ampia che ha origine e fine fuori dal perimetro del set, fuori campo, proprio come nell’ultima inquadratura. In Afternoon siamo ancora una volta in una casa diroccata e abbandonata, esattamente come quelle di Stray Dogs e I Don’t want to Sleep Alone. La differenza sta nella funzione che svolge questo spazio di rovine, non più solo teatro di un conflitto più o meno narrativo, ma vero e proprio spazio abitativo da prestare occasionalmente al cinema. Che poi potrebbe essere a sua volta un artificio, un ulteriore gesto cinematografico. Viene francamente difficile pensare che Tsai e Lee vivano effettivamente in quella casa. Ma non importa. Risulta invece molto più interessante riflettere su questa operazione di “conquista territoriale”, dove si rivendica il primato di chi quegli spazi li ha abitati e li continua ad abitare nell’intervallo tra l’ultimo ciak (Stray Dogs), e il ritorno di un’altra macchina da presa chiamata a filmare questo riposizionamento. Quello che Tsai Ming-liang ci mostra è una metafora perfetta della situazione in cui si trova la sua opera dopo il naufragio (e l’azzeramento) di Stray Dogs: al riparo da tutto e tutti aspettando l’amore (e la morte). Afternoon è la dichiarazione di appartenenza ad un immaginario che resiste al dissolversi di ogni ipotesi o forma filmica che possa contenere e raccontare la diaspora dei corpi, sempre più stranieri, rifugiati, richiedenti asilo nell’immagine. Approdo forse inevitabile e certamente coerente con il percorso intrapreso dall’autore dopo il terminale Stray Dogs, con la sua serie in surplace del Monaco errante, che attraversa la periferia del mondo con l’andatura compassata di chi nella durata trova il proprio fondamento identitario. Non più e non solo quindi nello spazio da abitare ma nel tempo della propria esistenza/permanenza, misurabile fino al più impercettibile degli scarti motori. Movimento destinato a tornare nel solo luogo d’origine possibile: lo spazio abbandonato e “qualsiasi”, unica dimensione concreta di un cinema senza fissa dimora.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 25/09/2015

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