Bagnoli Jungle

Un film povero e graffiante, tre storie comuni di resistenza e legalità in una giungla abitativa dove la bestialità appartiene al fuoricampo.

Nella giungla di case e balconi, vicoli e spazzatura si apre una radura contaminata dove non cresce nessun arbusto, nessun albero a coprirne il cielo, nessuna radice a riconquistare il terreno edificato e calpestato da suole operaie, nessuna fronda a farsi scudo dal calore cocente dell’estate o dalla pioggia dell’autunno. Il sole batte sulla ruggine, invecchia, mangia, scheletrisce gli altiforni dell’ormai ex Italsider di Bagnoli. Una pianura tra case di mattoni dove intorno nascono strutture abitative, tra piani bassi e piani alti, dai quali è possibile vedere il "paradiso della classe operaia prima dell’arrivo dell’inverno". Tre storie generazionali che si susseguono dandosi il cambio come una staffetta lineare e contigua, intente a raccontare tre personaggi: Giggino, un cinquantenne ancora un poco mariuolo, cacciato di casa dalla moglie che sopravvive ricettando cianfrusaglie varie opera di piccoli furti nelle macchine in sosta; Antonio, pensionato e padre di Giggino, ex operaio dell’Italsider, possessore di una casa con vista sul suo ex posto di lavoro e Marco, un diciottenne garzone di un alimentari, che si invaghisce di una sua coetanea impegnata nel sociale del quartiere. Antonio Capuano torna a raccontare la vita delle persone che abitano Napoli, spostandosi vicino al mare, a Bagnoli, in un quartiere una volta modello dello sviluppo siderurgico italiano è ora abbandonato, contaminato, dimenticato. Bagnoli Jungle è un film poverissimo che racconta la vita al livello stradale, che nonostante non goda di una messa in scena stilisticamente cinematografica fa del cinema il meccanismo di un racconto che ben si insinua alle altezze nel proprio narrato. Il magico realismo di una città che porta già in seno l’incredibile si manifesta ad ogni vicolo stradale, ad ogni balletto sulle punte, dentro a stanze non chiuse, dove risiedono cavalli, dove giovani donne in costume trasportano coccodrilli gonfiabili, in piazze dove l’Italia, rappresentata simbolicamente dal suo tableau vivant, risiede tra la spazzatura. Luoghi da sgomberare per il passaggio di pacifici cortei di protesta. Le storie raccontate dal regista non hanno nulla dell’epica criminale che svia attraverso i suoi modelli eroici le strade già torte di giovani in crescita. I tre personaggi presi in esame non appartengono a modelli camorristici idealizzabili ma possiedono una vitalità che insieme scende, trascende e si stabilizza nel quotidiano, nella realtà del lavoro, dell’impegno e nel ricordo. Un film che se da un lato si carica di movimenti drammaturgici che sfiorano la stilizzazione del luogo comune dall’altro riesce, attraverso una scarnificata rappresentazione, a digerirli ed a riproporli come passaggi di realtà, quotidiana e vera. Se le prime due storie non riescono appieno a costruire un ponte tra la realtà e la sua rappresentazione, struttura im-portante di collegamento tra la visione e lo spettatore, nel terzo intervallo, a mio avviso il più riuscito, Capuano torna a raccontare il reale attraverso il vettore che ben più rappresenta la sua filmografia: la gioventù. Marco – già protagonista ne La guerra di Mario – non rappresenta nient’altro che Marco, una ragazzo che cerca di crescere e sopravvivere in una realtà basica, che lavora senza lasciarsi rubare l’anima dalla camorra. Ed è a questo livello che la realtà si lascia trasportare ad un livello addirittura metacinematografico, quasi commuovente se viene considerato come possibilità di sublimazione delle realtà stessa, come innalzamento del livello verista della sua rappresentazione. Attraverso i movimenti del giovane garzone veniamo reinvestiti da quel distacco cinematografico, da quel magico realismo proprio del cinema. La camorra non viene esclusa dalla realtà, c’è ed esiste, uccide rimanendo fuoricampo, Giggino, il personaggio più instabile tra i tre, risiederà nel finale su una branda ospedaliera, con dei fori al costato come trafitto da lance romane in un posizione di pietà michelangiolesca. Come a ricordarci che gli abitanti della giungla non fanno nulla per renderla più feroce ma cercano solo di viverla e di sopravviverci seguendo la trasparenza delle legalità e nel rispetto dell’altro, ma a volte le belve carnefici tornano a colpire rimanendo nel sottobosco, risiedendo nell’ombra, lontani dalla loro idealizzazione, manifestandosi in un solo frame, uscendo da quel fuoricampo violento che esiste ed uccide.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 17/09/2015

Ultimi della categoria