Venezia 2013 / Why Don’t You Play in Hell?

Digrigna i denti, let’s go…

Jingles musicali che arrivano a saturazione, clan yakuza che si sfidano a colpi di katana mentre un gruppo di giovani cinefili, i Fuck Bombers, gira il suo unico grande film. Schizzi di sangue che flottano come zampilli di un solo vero amore incondizionato, quello del cinema per il cinema.

Why Don’t You Play in Hell?, scandalosamente assente dal concorso principale del festival di Venezia, è quel magma clamoroso, liquido e furente in cui il cinema tutto di Sion Sono sembra implodere. Lontano dall’essere un semplice e innocuo divertissement, la sua ultima fatica è anzi tanto esilarante quanto politica: come impossessato da una spinta eversiva e liberatoria che lo rende l’ennesimo manifesto di un cinema vitale fino al midollo, Why Don’t Yoy Play in Hell? canta l’elasticità della carne, il macello (o danza) di corpi umani riportati a nuova vita, come in un vero e proprio eccidio di realtà. Sembra quasi che Sono sia in grado d’intercettare quell’autenticità perduta in un’azione necessariamente parossistica: il viatico è l’eccesso. Ecco allora che ogni deriva pirotecnica si farà atto di fede incondizionata: s’impugnano le macchine da presa come se fossero le armi più potenti del mondo, corpi meccanici che sparano pallottole ventiquattro fotogrammi al secondo.

Dopo quel capolavoro epocale che era Love Exposure (che rimane ancora il film di una vita, inarrivabile e definitivo) Sono torna a divertirsi un mondo, continuando a costruire un cinema che non fa altro che trasudarne altro, tutto impegnato ad edificare quell’enorme esposizione d’amore che è il suo immaginario. D’altronde Why Don’t Yoy Play in Hell? è, al contrario delle apparenze, uno dei suoi film più intimi e personali: la sceneggiatura risale a quasi vent’anni fa e uno dei protagonisti, l’illuminato regista di film amatoriali che aspetta l’occasione della vita, non è altro che il suo l’alter-ego. “Ho scritto quest’opera quando mi trovavo nella situazione del protagonista del film” rivela in conferenza stampa, aggiungendo poi “Già vent’anni fa avevo pensato di far saltare le teste”.

Del resto questo eclettico regista giapponese, che ama cambiare pelle mentre salta da un genere all’altro, torna a fare quello che gli riesce meglio: giocare. E lo fa con l’entusiasmo di un bambino, naufragando in quel magma di sacra ingenuità, di fede nel trucco e nell’illusione, che è la base necessaria del suo mondo. Oggi più che mai il cinema va difeso, va inneggiato, va protetto e salvaguardato: correndo con delle pellicole in mano, come se fossero il tesoro più antico e prezioso del mondo, ci si lascia alle spalle le insidie della realtà esterna. Ecco che allora Why Don’t Yoy Play in Hell? si configura come un’opera profondamente sovversiva, come puro film di resistenza. Il cinema sopravvive o, ancora meglio, il cinema deve sopravvivere.

Impossessato da un dio profano (il dio del cinema che invoca uno dei protagonisti, il giovane regista-alter-ego dell’autore) Sion Sono mette in salvo le proprie illusioni, perfino quando l’ordine vuole reprimerle e distruggerle. Solo così sarà possibile riportare in vita i caduti e sconfiggere la morte. E’ dunque il gioco l’espediente narrativo e formale su cui si basa l’intero film, fin dal programmatico titolo. Del gioco Sono fa prima di tutto una questione di linguaggio: un film intero che si basa su un principio di continua deflagrazione dell’immagine, che risucchia, espande, inverte il cinema stesso di Sono (c’è il remix musicale che frulla immaginari lontani anni luce, ci sono gli echi pop di Love Exposure, c’è l’eccesso che condensa in uno sguardo decenni di trash e i retaggi di un cinema epico, di un’aurea mitica che non può che trasformarsi in parodia) e, di riflesso, frammenti di un altro cinema (scenografie di sangue, coreografie di corpi con Bruce Lee nel cuore, l’onore yakuza di una filmografia sterminata, scimmiottamenti tarantiniani e altro, tanto, generosissimo altro). All’urlo del motore la macchina da presa si risveglia, e all’azione ritorna a vivere. Impugnare, mirare, fare fuoco. Motore, azione e stop.

In fin dei conti non c’è azione che non sia immediatamente recitazione, come in quell’idea fissa, fondamentale, che tutto ci sia per essere simulato. Del resto la morte non esiste nel regime del cut. E all’interno di un mondo che cambia troppo in fretta, del canto del cigno della pellicola, della nuova pelle immateriale del digitale, Sono dice: “Io stesso non credo di capire perfettamente il cinema. Sto ancora cercando di capire cos’è”. E noi lo seguiamo, con la sua voglia di scoprire, d’inventare e di combattere, con gli occhi di un adulto ma il cuore di un bambino.

Del resto è solo un gioco.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 06/12/2014

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