Truth - Il prezzo della verità

L’esordio alla regia di James Vanderbilt è un film robusto e sfaccettato, così fedele al cinema civile americano che fu da essere un oggetto filmico fieramente fuori tempo massimo.

In principio fu Tutti gli uomini del presidente e, assieme al film di Pakula, tutto il cinema civile americano anni settanta. Robert Redford, incarnazione cinematografica dell’America più liberale, ha continuato ad essere il corpo attoriale attraverso cui esplorare le contraddizioni insanabili di un intero paese. I suoi personaggi sono sempre stati detentori di un portato etico, di un’umanità, di un codice morale a dir poco straordinari.

Non fa eccezione Dan Rather, vero cuore di Truth - Il prezzo della verità. Egli è un anchorman ormai al crepuscolo, un uomo d’altri tempi che si prepara alla definitiva uscita di scena. L’addio alle armi di chi, prima di sparire dalle voragini mediatiche, non fa che ripetere “Coraggio”, è la sofferta consapevolezza del fallimento di un intero paese. La coscienza di una piaga, di una direzione, di una traiettoria da cui non si torna più indietro. Il suo Dan Rather dà anima e sangue a quel senso di lontananza dal mondo, di non-appartenenza al reale, di totale, irredimibile non-conformità al nostro tempo. Il suo corpo è ormai l’icona immobile dell’intero immaginario cinematografico americano. Del resto Truth racconta anche – e soprattutto – la scomparsa di un cinema che era ancora in grado di credere nell’uomo e nei suoi ideali, nel suo senso etico, nella sua sete di giustizia. Nei buoni e nei cattivi, per dirla in maniera più semplicistica, e non nella confusione di ruoli, nel cinismo come visione del mondo, come attitudine onnicomprensiva.

D’altronde l’esordio di James Vanderbilt (già sceneggiatore del fincheriano Zodiac) trova la sua maggior fascinazione proprio nel suo essere un oggetto filmico fuori tempo massimo. Come Spotlight, visto pochi mesi fa a Venezia, Truth rintraccia nella detection il meccanismo privilegiato con cui interfacciarsi al reale, allo scopo di costruirne una nuova ontologia. Ed è un reale, questo, relativamente vicino. Siamo nel 2004, a pochi mesi dalle elezioni americane, quando una giornalista e produttrice televisiva della CBS news, Mary Mapes, indaga sul caso Rathergate, ovvero sulle presunte raccomandazioni con cui Bush entrò alla Guardia Nazionale invece di andare in Vietnam. Se tutto l’humus mediatico svela le sue radici intrinsecamente corrotte, la squadra di Mapes rimane perennemente agganciata a principi di etica giornalistica. Principi che, del resto, le faranno perdere il posto.

Più che alla detection Vanderbilt è interessato allo spettro mediatico dell’intera vicenda: come nasce una notizia? Come le si dà forza? Come la si rende credibile? La prassi delle prove, delle reazioni, dei ribaltamenti è in atto per tutto il film. Ma cosa succede se quella notizia si rigira ai danni dello stesso soggetto che l’aveva messa in moto? All’interno del mondo della comunicazione diviene sempre più difficile identificare soggetto e oggetto mediatico. Se nella prima parte, Mary Mapes è soggetto dell’indagine, nella seconda parte assistiamo a un ribaltamento radicale che fa slittare il ruolo della donna, trasformandola in oggetto in pasto ai media. Il ciclone avvolgerà, senza pietà, lei e tutta la sua squadra. E’ come se il meccanismo di cui anche la Mapes fa parte, prenda improvvisamente vita propria. Il circolo ininterrotto di informazioni, la velocità delle notizie, la loro ambivalenza intrinseca, sembrano muovere tutti i personaggi. Se la CBS News cerca solo di pararsi il culo, Mary Mapes crede ancora in una verità giornalistica, o quantomeno nella forza dirompente di una domanda. Eppure sarà proprio lei – e tutto un modo di fare giornalismo – a vedersi sconfitta.

Cate Blanchett porta sulle spalle l’intero film, dando anima e corpo a Mary Mapes. La sua recitazione febbrile, nervosa, quasi stressante, riesce – ancora più della scrittura – a rendere la Mapes una sorta di eroina giornalistica. Forse è proprio quest’immagine, quella che fa di Mary Mapes un modello, un’icona, l’aspetto più problematico del film: il rischio che Truth scivoli verso l’opera celebrativa è sempre dietro l’angolo.

Certo, Vanderbilt è interessato a disvelare psicologia e complessità dei suoi personaggi, attento a non trasformarli mai in flebili funzioni narrative. Ma nel fare questo a volte pecca eccessivamente di didascalismo (tutto il rapporto della Mapes col padre: ovvero la ghost-story che torna alla ribalta e motiva la protagonista stessa), ma poco importa: alla fine dei giochi Truth si rivela un film robusto, saldo, che sa assolutamente cosa dire. Del resto, al contrario di Spotlight, film per molti versi affine, questa è la storia di una grande sconfitta. E anche la retorica del finale è in fin dei conti la chiosa disillusa di quello che non è un paese per vecchi. Non c’è più spazio per Mary Mapes. Non c’è più spazio per Dan Rather. Il personaggio di Robert Redford cala il sipario. Eppure, da qualche altra parte, un bambino si improvvisa giornalista e, con la sua prima telecamerina, intervista la madre. Retorica? No, regola del gioco, cinema americano del tempo che fu.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 16/10/2015

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