Knight of Cups

Il film più doloroso di Malick è l’opera definitiva sull’oblio, condizione esistenziale e fondativa dell’uomo stesso.

Los Angeles, Babilonia delle stelle, dimora degli angeli, inerpicati al cielo e poi di nuovo scagliati tra i canyons hollywoodiani. Insoddisfatti, dimenticati, ricchi. Vivono in grattacieli che sembrano alberi maestri di navi indistruttibilmente glamour. Loro, fantasmi pop di un mondo in rovina, squallidi sognatori di superfici fulgide, donne-immagine e ville con piscina. Sono stelle cadenti, già pronte a scomparire. Rimangono frammenti, istanti…tagli. E playboy da strapazzo, sguardi furtivi di un ingranaggio che ha accecato il mondo. Ogni funzione, ogni gesto, ogni espressione si è inchinata all’estasi pubblicitaria, al trionfo parossistico dell’immagine e del suo riflesso abbacinante. Narciso ha visto se stesso e si è assopito in un futuro distopico, il figliol prodigo non è mai tornato a casa. Questo eccessivo, fastidioso turbinio, questo chiasso mortuario, questo rumore assordante che porta all’apatia: Knight of Cups.

Rick, protagonista dell’ultimo film di Terrence Malick, è soggetto stagnante, figura inespressiva e inerme priva di qualsivoglia volontà. E’ un morto che cammina, senza passato, senza futuro, perfino privo di presente. Sente una voce lontana che lo chiama a sé, ma non sa che strada prendere. Il cavaliere di coppe allora si perde. Lui, eterno appeso, sempre sbilenco, sempre mancante, sempre insoddisfatto. Nessuno può salvarlo perché ormai ha dimenticato come si fa ad amare. Un tempo conosceva l’altro mondo, ora l’ha abbandonato, perdendosi tra i mali del secolo come un viandante, pellegrino sonnambulo in un universo di squali. Nessuna morale, nessuna filosofia, nessun cristianesimo potrà riscattarlo.

Rimangono sogni nei sogni, impressioni scolpite nella mente pronte ad accendersi come improvvise, eccitanti epifanie. Rick sognerebbe di ricomporre mondi perduti, di ricostruire l’idea stessa di un uomo, di reinventare il legame tra sé e il mondo. Ma non può, non sa farlo, non osa farlo.

Knight of Cups, nuova, cupissima frattura del cinema malickiano, è quella che più di tutte fa i conti con l’oblio. Se The Tree of Life era infatti l’opera-miraggio che sognava riflessi ancora possibili (microcosmo-macrocosmo), se To The Wonder segnava la frattura inevitabile tra cielo e terra, Knight of Cups non lascia scampo: l’oblio è condizione esistenziale e fondativa dell’uomo stesso. Quest’appannaggio, questa dimenticanza, questo essere reduci di un mondo perduto di cui rimangono lievi controluce, ombre, ricordi, baluginii nel buio: l’oblio è moto vitale, inizio e causa di ogni nuovo pellegrinaggio. Si viene alla luce dall’oscurità, ma questa luce è deforme, pervertita dagli uomini e dalle cose. Si vede come nello specchio oscuro di paolina memoria: dal fish-eye della GoPro al video-selfie, dalle immagini virtuali alle ottiche grandangolari che fanno del mondo un’immagine, rifrazione iniqua e dolente di un albero della vita che non può più essere.

Tutto l’ultimo cinema di Malick, eterno assenteista, è volto a interpretare le mancanze della propria vita, le assenze, i ritorni, i rapporti affettivi e familiari. E’ il cinema più piccolo del mondo, perché ci riguarda, perché parla con noi senza deviare lo sguardo.

Dal padre di The Tree of Life, qui corpo pesante, sgradevole e solitario, al fantasma di un fratello morto che ha rovesciato l’Eden. Il deserto e la città, il cielo e la terra, l’uomo e la donna, tutti dualismi di un cineasta sempre più volto al nichilismo più estremo (e più sincero) del cinema americano degli ultimi anni. Oggi più che mai è chiaro come ogni movimento del cinema di Malick sia un falso movimento, un ondeggiare verso il nulla, una preghiera che invoca in modo struggente nient’altro che il vuoto. La propensione all’oltre, del resto, è propensione al nulla. Si prega sperando che, da qualche parte, ci sia qualcuno che ascolti: ogni invocazione è urgenza, richiesta, desiderio dell’altro. Ma nel cinema di Malick, lo sappiamo bene, tutte le domande sono prive di risposta, i sussurri sono unilaterali, concentrici, fragilmente immanenti.

Il cielo ormai è un paradiso lontano, un altrove che non può più appartenerci: sono tantissime le ali che compaiono in Knight of Cups, ma alla stregua di retaggi carnevaleschi, parodie sofferte di un volo impossibile. Il Paradiso è diventato un set pubblicitario, un teatro di posa, un’immensa, lussuriosa discoteca.

Dal cielo forse scendono gli angeli, travestiti da donne, che provano a risvegliare Rick: ma questo lungo letargo è una sospensione ondivaga che nemmeno la forza primordiale di un terremoto può fermare. Che cosa rimane allora? Un mondo di immagini, imprendibili, troppo veloci, troppo ardenti, troppo desideranti, troppo belle per non inquietare. A Malick serve l’alta definizione per mostrare il vuoto assoluto, l’assenza pneumatica, la mancanza cui conduce ogni perfezione. Un eccesso di bellezza che uccide il desiderio, mortifica la volontà, intorpidisce il giovane cavaliere.

Mai come qui, del resto, il cinema di Malick è sceso tra la gente: Knight of Cups è letteralmente un film-per-strada, un’improvvisazione vertiginosa dove tutto il mondo si è fatto cinema. Le superfici sono i luoghi dove ricercare una scintilla che, appena colta, è già altrove, perennemente da un’altra parte. Allora si sprofonda sott’acqua, richiamati da un mondo lontano, senza tempo, senza durata. Che l’universo subacqueo sia più vicino al cielo, che il suono ovattato del mondo in una piscina possa riflettere il movimento degli eoni? La materia si astrae e non rimangono che sogni nei sogni e il ricordo vaporoso del bambino che eravamo. Il principe non può più svegliarsi, ma può sempre cominciare (comincia, ci pare, sia l’ultima parola del film).

Las Vegas, Los Angeles, mostre d’arte, coreografie del futuro, e tutto ciò che ne rimane: angeli in alta definizione, immemori di un colore caldo che possa tornare ad abbracciare le immagini, perduti in un mondo che non si vuole più. Ancora una volta, in attesa di Weightless, il cinema di Malick è vicino e lontano, presente e assente, domestico e universale.

Dove stai andando Terrence?

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 21/11/2016

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