November

di Rainer Sarnet

Dall’Estonia, una fantasmagoria etnografica di grande impatto visuale, sospesa fra realismo magico, mélo e critica socio-antropologica.

November – recensione film Sarnet

Agli estremi confini dell’Europa occidentale si agita un cinema carico di vita e di seducenti suggestioni, e nondimeno ancora sostanzialmente invisibile ai nostri occhi. Accanto a paesi di grande tradizione come Russia e Polonia si cominciano a intravedere oggi intriganti baluginii creativi anche da nazioni come la storicamente più rodata Finlandia, o come le emergenti Lituania ed Estonia. Sul versante estone, vanno almeno segnalati The Temptation of St. Tony (di Veiko Õunpuu, 2009) e il film di cui ci si occuperà in questa sede, November di Rainer Sarnet, qui alla sua quinta fatica per il grande schermo, con due corti in coabitazione, all’interno di film collettivi, e tre lungometraggi.

Tratto dal romanzo Rehepapp (2000) del poliedrico Andrus Kivirähk, una fantasmagoria etnografica venata di realismo magico e critica socio-antropologica, November costituisce uno degli esempi più notevoli di un cinema capace ancora di sorprendere e ammaliare, di dar vita a un universo iconico in cui prende forma l’extra-ordinario del sogno, dell’allucinazione, magari dell’incubo, in strenua lotta con l’ordinarietà dell’abituale, del consueto. Lo sviluppo narrativo è focalizzato su una piccola comunità estone di cacciatori e allevatori – presumibilmente nel diciannovesimo secolo, anche se le marche temporali significative scarseggiano – alle prese con le ambasce di una quotidianità segnata dalla morte (la peste), dal sovrannaturale (il proliferare di figure fantastiche, come i kratt, o spettrali, come le anime dei defunti che interagiscono coi vivi) e dalla sottomissione (il signore di quelle terre è un barone tedesco). Sarnet intreccia il realismo degli ambienti antropizzati e degli oggetti di uso comune con l’onirismo ostinato di una stupefacente messa in scena pittorica, il cui artefice principale è Mart Taniel, direttore della fotografia anche nel già citato The Temptation of St. Tony. La pulizia del bianco e nero delle sequenze negli ambienti chiusi, perlopiù rurali, in cui linee e profili risultano spesso nettamente distinguibili, si contrappone al conflitto notturno fra luce e buio degli esterni, che si alterna all’opalescenza diurna o serale dei paesaggi innevati. In particolare là dove compare la figura umana, assieme al suo carico di turbamenti e al reticolo di relazioni complesse con la comunità e l’ambiente, aumentano sensibilmente le sfumature e le ombreggiature, a suggerire i molti conflitti emotivi dei personaggi. È come se lo schermo risultasse sovente diviso in due parti esteticamente contrapposte, con le zone occupate dai personaggi cariche di chiaroscuri e il resto dello spazio illuminato in modo più omogeneo.

Realismo e prodigio, fenomenologia e incanto costituiscono gli assi espressivi e connotativi attorno a cui ruotano le istanze individuali e collettive dei personaggi, che muovono a loro volta una narrazione trasognata e rapsodica, intessuta di passioni represse, slanci individuali e collettive meschinità, veicolate però dal bisogno. Le urgenze più elementari di un’esistenza senza punti d’ancoraggio, più che individuare una propensione alla cupidigia da parte dei membri della piccola comunità, come sarebbe stato nelle intenzioni del regista, sembrano invece delineare i tratti della servilità nei confronti sia del potere umano (il barone interpretato da un Dieter Laser quantomai sornione) sia soprattutto dell’onnipotenza della natura. Tuttavia, se la servilità è l’inevitabile reazione esibita al cospetto di una minaccia soverchiante, essa trova poi un degno controcanto nelle ingegnose misure per la sopravvivenza, dissimulate sotto la patina di una muta accettazione degli eventi. Ogni azione è protesa ad estendere un barlume di controllo e difesa nei confronti di qualsiasi rischio, sia che questo provenga dalla miseria costitutiva sia che incomba dall’esterno. La prosaica arguzia popolare sembra in grado di far fronte a qualsiasi occorrenza, servendosi dell’inganno o della magia e mettendo a repentaglio il domani per preservare l’oggi. Non vi può del resto essere lungimiranza e progettualità, là dove il rischio è persistente. Ecco allora che la peste (con sembianze umane o animali, a seconda delle necessità narrative) viene gabbata facendole credere che le sue potenziali vittime possiedono due deretani e nessuna testa, tramite l’utilizzo di pantaloni indossati al contrario, mentre le esigenze della caccia vengono soddisfatte ricoprendo i proiettili con le ostie della comunione, debitamente conservate in bocca e poi sputate. Qualora serva invece un aiutante perennemente attivo nel lavoro quotidiano, è sufficiente vendere la propria anima alle infere presenze boschive – o al diavolo, poco importa, purché il risultato sia efficace nell’immediato – per ottenere un kratt, sorta di creatura para-robotica formata di paglia e utensili, e vivificata, tramite uno stravagante rituale notturno, dall’anima di un defunto. Emerge, in sintesi, il tentativo del regista di restituire le contraddizioni di una terra marcata dal perenne conflitto fra uomo e ambiente, fra natura e cultura, e mai realmente soggiogata dalla colonizzazione religiosa del cristianesimo, e dunque priva di strumenti apotropaici di natura autenticamente trascendente, atti a esorcizzare le ambasce di un’esistenza attenuata, dispersa ai margini del mondo.

A incarnare la dimensione dello spirito slegata dalla materia, del desiderio svincolato dal bisogno, troviamo invece tre figure di giovani, che sostanziano il versante mélo del film, vero filo conduttore della dimensione emotiva del racconto: Liina (Rea Lest) ama Hans (Jörgen Liik), mentre questi a sua volta ama la figlia del barone (Jette Loona Hermanis), nel rilancio continuo di una brama perennemente inappagata. Lungi dall’indulgere nella descrizione dei meccanismi della seduzione, Sarnet preferisce indagare il mistero dei volti, dei gesti, delle posture, attraverso un certosino lavoro espressivo di tipo luministico, da cui ciascuno dei vertici del triangolo emerge nelle proprie peculiarità sentimentali e psicologiche. Hans personifica la forza vitale e diurna della giovinezza, tramite la spensierata leggerezza dei movimenti e la limpidezza con cui il suo volto è reso prevalentemente senza ombre, mentre Liina si colloca sul versante della notte, dell’attesa paziente, della passione repressa, giocata sui chiaroscuri perennemente contrastati che arabescano il suo viso. La giovane baronessa, dal canto suo, incarna a un tempo l’enigma dell’eterno femminino e, più prosaicamente, l’inaccessibilità del benessere, sintetizzati dall’incedere algido e solenne della sua figura fra le comode stanze della villa padronale: una persona e uno spazio preclusi a chi vive così prossimo, eppure così distante, sotto il cielo funesto della necessità.

Sarnet non è interessato all’approccio da documentario etnografico, quanto piuttosto alle dinamiche espressive del racconto fantastico, rese dall’irrompere del surreale o del grottesco nel quotidiano, dall’impari duello fra emozione e ineludibili esigenze di sopravvivenza, fra romantici languori individuali e concreti bisogni collettivi. November si configura come una sontuosa Symphonie fantastique, in cui la poesia dell’immagine si divora la prosa della narrazione e in cui ogni elemento visuale e sonoro converge a formare una tessitura percettiva di rara suggestione. Se a osservare sono altri occhi, un altro cinema è ancora possibile.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 11/06/2020
Estonia, Olanda, Polonia 2017
Regia: Rainer Sarnet
Durata: 115 minuti

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