La zuppa del demonio

Ferrario elabora una buona analisi dell’evoluzione consumistica in Italia purtroppo priva di un collegamento con il corrente percorso tecnologico

In Italia l’esplosione consumistica viene solitamente associata al boom economico degli anni Sessanta, allorché venne meno in parte il grande divario inerente il potere d’acquisto fra le classi sociali. Da allora, a poco a poco, anche la gente di condizioni più disagiate ha potuto entrare in possesso di beni di consumo quali televisione, lavatrice et similia, fino allo sviluppo del paradosso contemporaneo per cui malgrado la crisi economica attuale, la difficoltà di arrivare a fine mese e la precarietà lavorativa, tutti noi usufruiamo di attrezzi altamente tecnologici quali computer, smartphone e tablet. Ma una volta si credeva davvero che il progresso e la produzione di oggetti destinati a soddisfare anche il più minimo bisogno aprisse le porte a un futuro di benessere collettivo, ed è su quest’illusione dorata che si fonda La zuppa del demonio, il documentario di Davide Ferrario sulla storia del progresso industriale in Italia dai primi del Novecento fino agli anni Settanta.

L’industria è d’altronde uno dei termini chiave del secolo scorso, non solo in ambito economico: il cinema stesso nasce e si sviluppa come industria gestita da più persone – Ferrario nota sagacemente che il primo vero film della storia del cinema riprendeva in effetti operai che escono da una fabbrica – contrapposta all’antico concetto della creazione quale momento individuale vissuto dall’artista, ed è una sorta di tributo quello che il regista paga a una visione capitalistica del mondo da cui sono usciti elettrodomestici, centri commerciali e anche sale cinematografiche.

Accompagnato da immagini di repertorio e riflessioni ad opera di intellettuali del tempo (Marinetti, Pasolini, Bocca fra gli altri ) La zuppa del demonio analizza la graduale industrializzazione italiana a partire dalla nascita di nuovi materiali inediti in un ambiente fino ad allora prevalentemente agricolo. Tra campi e prati sorgono le prime fabbriche, impegnate a forgiare mostri di acciaio e ferro che vanno a sostituire la coltura della terra con una sconfinata fiducia, coadiuvata dalla propaganda prima futurista e poi fascista, nella nuova società industriale: moderna, veloce, metallica, ultima riprova dei talenti dell’uomo capace di perfezionare le mancanze della natura con il suo ingegno. Consumare diviene allora la garanzia finale di un vivere al di sopra del dovere di mantenere gli oggetti causa la loro insostituibilità; tutto si può usare e buttare, appagando un appetito viziato dalla convinzione che il capitalismo possa soddisfare ogni capriccio umano.

Icona determinante dell’epoca è la Fiat, con le sue automobili che contrassegnano la dimensione culturale e sociale del paese e iniziano un rapporto di fidelizzazione sia con l’operaio che il cliente, legame poi ricalcato da innumerevoli altri brand: l’interruzione del racconto di Ferrario proprio dopo gli anni Sessanta è forse allora un modo di narrare il mito senza soffermarsi sul crollo delle illusioni avvenuto con le chiusure, e il dramma della disoccupazione che dopo la parentesi felice della crescita economica ripiompò in Italia negli anni Ottanta. Ma mancare gli ultimi trent’anni dell’ulteriore progresso tecnologico, parallelo a una antitetico restringimento degli orizzonti economici, significa lasciare incompiuto ogni discorso sulla presente dipendenza dai prodotti di consumo esperita oggi da ogni categoria di reddito: La zuppa del demonio si delinea pertanto come volenterosa opera incompiuta che descrive senza approfondire una situazione che tuttora attraversa la società corrente. A malincuore perciò siamo costretti a concludere che anche con quest’ennesimo lavoro Ferrario si dimostra regista diligente, certo, ma in finale poco dedito a inserire nei suoi film quel quid che definisce un prodotto di qualità, dando vita invece a racconti interessanti ma malamente abortiti sul nascere.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 03/09/2014

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