Future Reloaded / Considerazioni finali sul Festival di Venezia 2013

Con la vittoria di Gianfranco Rosi e del suo Sacro Gra cala il sipario sulla 70esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Un’edizione che, se si escludono un gruppo di opere straordinarie (Stray Dogs di Tsai Ming-liang, At Berkeley di Frederick Wiseman, Feng ai di Wang Bing, Die andere heimat di Edgar Reitz, Gravity di Alfonso Cuaròn, Why Don’t You Play in Hell? di Sono Sion, The Wind Rises di Hayao Miyazaki, Redemption di Miguel Gomes, The Canyons di Paul Schrader), e il prestigioso riconoscimento al cinema italiano che mancava da ben quindici anni, verrà probabilmente ricordata come di transizione, senza grandi punti di riferimento, votata alla ricerca espressiva e aperta ai nuovi autori. Tuttavia al di là della riuscita dei film e della bontà delle selezioni, ciò che conta sono come sempre le indicazioni che un festival riesce a fornire, le tendenze più o meno evidenti, lo stato di salute delle singole cinematografie, i rapporti di forza tra centro e periferia del mondo, e poi ancora i percorsi di determinati cineasti, la tenuta dei generi cinematografici, l’emersione di nuovi sguardi autoriali, le modalità di rappresentazione dominanti e altro ancora. Le risposte che questa annata di Venezia ci ha offerto sono come (quasi) sempre contraddittorie e probabilmente molto diverse da quelle che i selezionatori e il direttore Barbera si aspettavano. Potremmo sprecare battute su battute nel parlare di quanto il cinema uscito da Venezia sembri sul punto di collassare, sul pessimismo di fondo che domina buona parte delle opere, sulle tragedie che incombono da una parte all’altra del globo, sulla disgregazione del nucleo familiare (così furbescamente messa in scena dal greco Avranas) sulla crisi economica, morale e sociale dell’Europa. Ma preferiamo volgere lo sguardo altrove e provare a far emergere le fratture e i sottotesti di un programma letteralmente schizofrenico dove il fuori concorso è apparso di gran lunga superiore rispetto alla competizione ufficiale.

Il territorio principale nel quale si sono sviluppate le riflessioni più profonde è stato senza dubbio il documentario, in particolare nelle opere “fuori formato” di Wang Bing e Frederick Wiseman, una ambientata in un manicomio cinese e l’altra nella prestigiosa università americana di Berkeley. Due grandi esplorazioni spaziali, circoscritto e claustrofobico il cinese, aperto e organico l’americano, nei quali i cineasti si sono immersi fino a partecipare fisicamente alle piccole/grandi storie che filmavano, in un continuo movimento etico tra distanziamento e prossimità. Due diverse meditazioni sull’uomo (sociale, politico, animale) colto nella sua forma più alta (la pedagogia, l’insegnamento, la trasmissione di saperi, culture, diversità) e in quella più bassa (la follia, la sopravvivenza, i bisogni) attraverso il lavoro sul tempo filmico, plasmato dai due cineasti con lunghi piani sequenza in camera fissa o in spalla. Visti uno dopo l’altro potrebbero apparire come un dittico umanista sulle virtù e le aberrazioni dell’uomo. Sempre fuori concorso c’è stato poi chi ha provato a riscrivere la vita di quattro potenti dell’Occidente immaginando una possibile redenzione nel loro vissuto privato (Redemption di Miguel Gomes). Un’altra grande meditazione sul passato, inteso come passato del cinema, territorio vergine ed inesplorato da riplasmare con l’ausilio di “semplice” materiale d’archivio che esplicita le narrazioni più bieche dei potenti (Fascismo, Colonialismo) e così facendo le neutralizza, con una fiducia nelle immagini e nel potere del cinema che non può non colpire. La stessa di Alfonso Cuaròn e del suo stupefacente viaggio spaziale di Gravity che ci porta a riscoprire il corpo (le lacrime, il sangue) dopo il suo superamento. Un film di confini fisici e mentali continuamente attraversati dalla macchina da presa, che nell’esplorazione dell’ignoto spazio profondo supera le superfici facendosi puro “sguardo immateriale”, per poi, infine, tornare alla terra e alla materia. In un ideale controcampo filmico troviamo dall’altra parte Stray Dogs di Tsai Ming-liang (Gran premio della giuria) che segue il percorso opposto: parte dal corpo come nucleo traumatico incapace di andare oltre l’espressione di bisogni fisiologici per poi registrarne la scomparsa dall’immagine. Il cinema, sembra dirci Tsai, può forse sopravvivere anche senza di lui, come esperienza della visione, spazio contemplativo nel quale l’occhio guarda se stesso e riflette sull’atto di vedere. Ma cosa c’è ancora da vedere? Ribattono Paul Schrader e Bret Easton Ellis con il loro balletto di simulacri digitali ammiccanti in favore di macchina. Tutto, o forse proprio per questo più niente, anche se, come suggerisce Sono Sion con il suo progetto risalente non a caso ad una ventina di anni fa, il cinema vale ancora la pena di essere vissuto fino all’ultimo respiro, fino all’ultima inquadratura..

Il problema semmai viene dopo: ora che tutto è filmabile e registrabile anche con il più piccolo supporto, come facciamo a selezionare le immagini? Atom Egoyan (Butterfly) ci mette di fronte all’unica scelta possibile di oggi: non cosa filmare ma cosa preservare nel magma indistinto di immagini e ricordi. Qualcosa si perderà comunque, che sia la fotografia di Anton Corbijn che egli scelse di catturare con la sua macchina fotografica, oppure il proprio corpo, colto quasi casualmente nell’atto stesso di filmare. Le ombre, il suono dei passi, il percorso di avvicinamento all’oggetto del proprio interesse. Servirà un altro film, un altro deposito di immagini per salvarle dall’oblio. E come un dipinto di Picasso una sola immagine ne conterrà al suo interno altre centinaia invisibili. Perché il cinema, per quanto pessimista sul suo futuro, non può fare a meno di esistere anche solo per piangere la propria scomparsa, per cantare la propria decadenza. Ed è per questo che, nonostante tutto, non si può essere catastrofici sul futuro. In un ideale conclusione di questo percorso ci piace immaginare una macchina da presa che si alza verso il cielo fino ad oltrepassare le nuvole, in un movimento di ascensione rosselliniano simile a quello di Amos Gitai alla fine del suo Ana Arabia. Qui ritroviamo l’ingegnere Caproni e Jiro che contemplano dal cielo le macerie di un cinema ancora da ripensare dopo la rivoluzione digitale. “S’alza il vento, bisogna tentare di vivere”.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 05/12/2014

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