Il cinema di Tsai / Questi fantasmi

Siamo nel 2001. Al Festival di Cannes viene presentato in anteprima il quinto film da regista del malese Tsai Ming-Liang (già vincitore di un Leone d’oro e un Orso d’argento): Che ora è laggiù?, titolo emblematico e primo vero momento di rottura nella carriera dell’autore. Partiamo dall’incipit. Un uomo (l’attore Miao Tien, interprete storico del cinema taiwanese) porta verso il tavolo un piatto fumante, pronto per essere mangiato. Prima di cibarsi estrae una sigaretta dal pacchetto e se la fuma. Lo sguardo è perso verso il vuoto, i tempi estremamente dilatati nel loro incedere realistico. Dopo qualche boccata l’uomo si alza, per poi fermarsi nuovamente. Si affaccia in un’altra stanza e chiama Hsiao Kang (personaggio feticcio di Tsai Ming-liang nonché figlio dell’uomo). Nessuno gli risponde. Torna a sedersi per pochi secondi, un paio di boccate e poi si rialza, dirigendosi verso una porta vicino alla cucina. Attraversata la soglia, rimane fermo a finire la sigaretta. Stacco.

Un ragazzo (Lee Kang Sheng, attore storico di Tsai) sta viaggiando in taxi, assorto nei suoi pensieri. Tra le braccia tiene stretta un’urna funeraria, alla quale si rivolge dicendo: «Padre stiamo per attraversare il tunnel. Devi seguirci, ok?». L’uomo è dunque morto: quello che abbiamo visto poco prima erano i suoi ultimi istanti di vita prima del trapasso, prima del viaggio lungo il tunnel, prima dell’oblio. Una morte mostrata nella sua negazione, ovvero attraverso la presenza fisica e il resoconto “concreto” di gesti quotidiani come sono quelli del pasto – al quale però l’uomo, significativamente, si nega. Questo intervallo temporale produce dunque una frattura nell’immagine. A quale tempo si riferiva la prima sequenza? Era un flashback del figlio, che dal taxi pensava al padre, oppure un salto nel futuro, con il fantasma paterno che dopo la morte continua ad abitare la casa di famiglia? La confusione temporale, di cui il fantasma del padre è incarnazione (in quanto manifestazione tanto del passato che del futuro) rappresenta il punto centrale del film e più in generale dell’intera opera di Tsai Ming-liang che da questo momento in poi non farà altro che viaggiare costantemente attraverso il tempo e ad interrogarsi sul proprio passato e su quello del cinema. Dopo il funerale, Hsiao Kang riprende l’attività quotidiana di venditore di orologi. Durante un giorno come tanti incontra una ragazza, Shying Chyi, alla quale regala un vecchio orologio, appartenuto al padre. Questo preludio d’amore è destinato, come sempre in Tsai, a non trovare poi una sua concreta realizzazione. La ragazza, infatti, parte alla volta di Parigi per una vacanza, lasciando Hsiao Kang solo con i propri fantasmi a Taipei, diviso tra l’elaborazione del lutto e il lavoro.

Questa frattura geografica (per la prima volta nel cinema di Tsai, usciamo fuori dai confini taiwanesi) ne produce un’altra temporale: Che ora è laggiù? Il tempo dell’amore associato all’ora di Parigi diventa una vera e propria ossessione per Hsiao Kang, il quale cerca di sincronizzarsi con la ragazza e dunque con l’orario francese manomettendo tutti gli orologi che trova lungo il suo percorso, e vedendo i vecchi film della Nouvelle Vague, in particolare I quattrocento colpi, di cui Tsai mostra due sequenze: quella del furto della bottiglia di latte e quella della giostra. Una sincronizzazione che però risulta impossibile vista la distanza (fisica, mentale) che separa i due corpi ma soprattutto per i tempi, inevitabilmente diversi, che scandiscono le vite dell’uno e dell’altra. Così mentre Hsiao Kang trova nelle immagini truffauttiane (e nello sguardo del piccolo Antoine) una corrispondenza emozionale con il suo vissuto, Shiang Chyi incontra un Jean-Pierre Léaud invecchiato al cimitero; mentre a Taipei si elabora il lutto del padre, a Parigi il fantasma paterno appare nell’ultima sequenza, recuperando la valigia della ragazza e innescando il movimento (nient’affatto casuale) della ruota panoramica – riferimento visivo al moto rotatorio della giostra nella quale Antoine si faceva girare la testa, forse per trovare la strada giusta (come nota puntualmente Ghezzi), ma anche segno dell’incessante fluire del tempo e della Storia. Se Parigi è indiscutibilmente la terra dei morti (del cimitero, del fantasma del padre, della Nouvelle Vague in B/N) Taipei non è da meno, con il suo cinema prossimo alla chiusura e infestato dai fantasmi in Goodbye Dragon Inn. Qui ritorna nuovamente Miao Tien, già padre di Hsiao Kang in Rebels of Neon God, Il Fiume, The Hole, questa volta nelle duplici vesti di spettatore ed interprete di un vecchio film del maestro King Hu – Dragon Inn – proiettato per l’ultima volta. Il passato assume una connotazione ancora differente: continua ad essere una terra straniera come in Che ora è laggiù? luogo irraggiungibile, lontano fisicamente e culturalmente dai protagonisti, e, al contempo, spazio concreto, luogo di rovine, nel quale gli uomini possono specchiarsi e commuoversi nel ricordo del tempo che fu. Hsiao Kang diventa un proiezionista, ovvero l’agente attivo in grado di controllare il flusso visivo, di animare e gestire i ricordi, facendoli scorrere sullo schermo.

Il suo è in qualche modo un viaggio nella storia del suo paese (adottivo?) e insieme l’ultimo saluto ad una stagione e ad un’epoca irripetibile. Goodbye Dragon Inn mette in scena il momento in cui interviene il trauma, in cui si produce un cambiamento, nel quale prende forma quel particolare sentimento nostalgico del suo autore, che, riprendendo una felice formula Jamesoniana, si potrebbe definire del presente, perché rivolto al tempo che viviamo e che ci ricorda il nostro costante venir meno. Ogni film di Tsai mostra le rovine del progresso e della globalizzazione (e in questo senso la sua filmografia “funziona” come una puntuale istantanea dei cambiamenti intervenuti, nel corso degli anni, nella morfologia di Taipei e nella società taiwanese), ritornando sui vecchi set, inevitabilmente trasformati nel/dal tempo (come nel caso di The Skywalk is Gone, ambientato nello stesso luogo di Che ora è laggiù? che mette in scena la scomparsa del ponte, teatro dell’incontro tra i due protagonisti), ma soprattutto l’inafferrabilità del flusso temporale. Per quanti sforzi possano fare i suoi personaggi tutto cambia e tutto si trasforma. E a niente servono gli slanci musical di The Hole e Il gusto dell’anguria, così come la ricerca di un riparo in Vive L’amour o I Don’t Want to Sleep Alone; il tempo fa il suo corso erodendo i corpi e svilendo i sentimenti. E allora l’unica soluzione contro la morte, la solitudine e l’oblio resta la settima arte, con le sue immagini che si ricordano le “vite precedenti” (King Hu, Truffaut), con le sue storie, i suoi eroi, con i suoi fantasmi (Miao Tien, Jean-Pierre Léaud, Fanny Ardant, Nathalie Baye, Jeanne Moreau) chiamati ogni volta a celebrare il ricordo di chi non c’è più (come nel caso di Visage, dedicato alla madre di Tsai) e a partecipare a quella grande, forse ultima, Camera Verde truffauttiana che è il cinema di Tsai Ming-liang.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 10/02/2015

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