Per vedere meglio e, forse, capire - Ritorno al cinema di Edward Yang

di Edward Yang

Guida al cinema di Edward Yang, un mondo in cui immergersi, con le giuste mappe e la predisposizione a perdersi, per ritrovare la strada e ripartire.

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Un regista come Edward Yang dovrebbe essere ricordato in ogni storia del cinema che si rispetti: assieme a Hou Hsiao-hsien, con cui ha collaborato strettamente agli inizi della carriera con Taipei Story, è stato l’autore chiave del Nuovo Cinema taiwanese. I due registi hanno trasformato un movimento cinematografico locale in un laboratorio incandescente di forme e voci che ha ridefinito i canoni del cinema moderno. Eppure, la cinefilia occidentale del ventunesimo secolo fatica a trovare un posto per Edward Yang, la cui filmografia è molto più refrattaria alle rapide incursioni e alle visioni distratte sullo schermo di un notebook. In questo senso, l’autore condivide in Occidente il destino di Kenji Mizoguchi, Fei Mu e altri registi cresciuti al di fuori della nostra sfera culturale, i cui temi e percorsi stilistici risultano di difficile traduzione. Ne riconosciamo la statura ma, per riprendere un’espressione cinese, preferiamo “rispettarli a debita distanza”. Ciò che caratterizza Yang è che, a differenza degli altri, è anche un autore profondamente occidentale nei linguaggi e nella formazione. Quali che siano le ragioni di questa amnesia collettiva, si tratta di un grande torto e di una colossale occasione sprecata, perché Yang ha moltissimo da dire al pubblico del ventunesimo secolo. Tornare ad Edward Yang è un’operazione doverosa, e non soltanto per il ciclico e necessario recupero di frammenti e autori del passato che è una delle responsabilità di chi si occupa di cultura. Tornare a Yang è doveroso perché l’autore ha affrontato, con decenni di anticipo, i problemi fondamentali con cui il cinema e l’audiovisivo si confrontano oggi, e perché ha individuato soluzioni originali senza mai adagiarsi su formule precostituite e rendite artistiche.

Il modo migliore per affrontare un autore complesso come Yang è imparare dalla calma e la metodicità che caratterizzano molte delle sue opere. Torniamo, con metodo aristotelico, al logos. O meglio, alle immagini. Lampadine che si accendono nell’oscurità, come nella prima inquadratura di A Brighter Summer Day. Tableaux famigliari attraversati da tensioni etniche, economiche, generazionali. Ostacoli alla visione: porte socchiuse, campi medi o lunghissimi che dissolvono i volti e le parole. Inquadrature che cominciano un po’ prima e finiscono un po’ dopo rispetto alle nostre aspettative. Pillow shots che ricordano Ozu ma che sono scevri della sua carica elegiaca: la cisterna di The Terrorizers ha ben poco della lirica silenziosa delle teiere sul fuoco dell’autore giapponese. Architetture urbane insinuate nelle storie e tra gli uomini, veri e propri personaggi: gli stretti, intimi vicoli di Taipei e le fredde geometrie degli uffici e dei palazzi del potere.

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Una rapida scorsa alla filmografia di Yang rivela un’impressionante varietà di tecniche, stili e suggestioni di genere. In The Terrorizers, Yang adotta un montaggio rapsodico e uno sguardo incerto tra reale e surreale per raccontare dell’indeterminatezza della vita urbana, con suggestioni che partono da Antonioni fino a lambire i linguaggi del documentario di osservazione e del fumetto. Viceversa, nell’affresco corale di A Brighter Summer Day e di Yi Yi – ... e uno... e due il respiro rallenta e Yang fa leva sul lato orientale della sua eclettica formazione cinematografica, dialogando direttamente con il cinema di Hou Hsiao-hsien, in particolare con i quadri e i piani sequenza di Città dolente. Altre opere, come Mahjong e A Confucian Confusion, seguono regole del tutto diverse e si avvicinano al pamphlet grottesco e al cinema romantico. La metafora più naturale è quella del caleidoscopio: una complessità irriducibile, una confusione di desideri e aspettative – nessuno sa quello che vuole, ci ricorda uno dei protagonisti di Mahjong – una frontiera urbana che è a tutti gli effetti una terra incognita da mappare e comprendere, pena lo smarrimento senza appello.

Attraversare questo caleidoscopio significa, innanzitutto, superare l’idea dello stile come firma d’autore o come lente selettiva e limitante per osservare il mondo. Yang non è uno stilista (anche se adotta stili e tecniche raffinatissime), ma un convinto sostenitore dell’idea di un cinema di metodo; non vuole restringere il cono dello sguardo, ma allargarlo. Lo stile è uno strumento duttile per dare ordine al mondo, è la matrice necessaria senza la quale non sarebbe possibile fare il tipo di cinema che interessa a Yang: cinema che affonda i denti nella materia e nelle più profonde inquietudini dell’uomo immerso nella modernità e nel suo prodotto più evidente, la metropoli. In altri termini, Edward Yang non è uno di quelli che David Bordwell definisce gli “stilisti testardi”: non ci sono firme o facili mitologie d’autore a cui aggrapparsi. Né barocco né (semplicemente) postmoderno, l’autore taiwanese è un grande narratore e poeta, ma le sue storie non sono mai fini a se stesse: la vocazione del suo cinema è rivelare le zone d’ombra del nostro sguardo. Ci aiuta a vedere e, forse, a capire. Il risultato di questa chiarezza di intenti è un cinema aperto in tutte le direzioni, poroso e distante dai suoi soggetti perché rispettoso delle loro complessità.

La distanza, sempre perfettamente calibrata, tra i personaggi e la macchina da presa costituisce buona parte di quello che potremmo definire lo stile di Edward Yang. Più mobile di Hou Hsiao-hsien, più europeo eppure capace di improvvisi strappi e violazioni grammaticali nel momento in cui la regola diventa ostacolo all’autenticità della narrazione. Una distanza che favorisce l’analisi all’empatia, come suggeriscono le rare sequenze di azione e violenza del suo cinema. Una distanza che si riflette nella natura dei personaggi prediletti dall’autore: apolidi, solitari, disadattati o “esiliati dalla modernità”, come ha scritto Jonathan Rosenbaum in una illuminante analisi dell’opera dell’autore [1]. In ogni caso, sono osservatori, che a volte coincidono con il regista stesso (è il caso di Yi Yi e del piccolo Yang Yang) o con lo spettatore: testimoni che cercano di adattarsi a un mondo sfuggente e ostile e che, in alcuni casi, ne sono (s)travolti. Il risultato di questo rigore è la chiarezza e la freschezza di nuovi punti di vista che percepiamo come autentici, forse perché irriducibili a qualsiasi frettolosa sinossi o aforisma dalla facile condivisione. Trasparenza e opacità convivono, così come la tragedia e l’ironia, il vicolo cieco e la scintilla di una possibile liberazione. Nel cinema dell’autore le sconfitte e gli atti di violenza sono il frutto quasi matematico di tensioni mai sopite, di famiglie incapaci di venire a patti con la modernità o di relazioni di potere insostenibili: non sono il frutto del Fato, sono meccanismi messi a nudo e che possiamo, in teoria, disinnescare.

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Quelli di Yang sono mondi di glaciale bellezza: la messa in scena impeccabile e la metodica costruzione drammaturgica mantengono il controllo, oltre che della Babele della città contemporanea, di una ricchezza di storie e personaggi che ha dell’incredibile. La complessità, oltre che stilistica, è tematica e storica: tenere traccia dei palinsesti di storie e microstorie, delle linee parallele e tangenti che attraversano ogni film, è impresa ardua. Non è difficile credere a Tony Rayns quando riporta che, secondo il regista stesso, A Brighter Summer Day è nato da un materiale narrativo sufficiente per trecento episodi di una serie televisiva [1]. L’intero arco narrativo di Honey, boss di una gang giovanile a metà tra Marlon Brando e James Dean, si risolve in pochi minuti e una morte improvvisa. L’incontro tra due dei personaggi principali del film avviene nella clinica scolastica per motivi che potrebbero facilmente sfuggire: il protagonista soffre di problemi alla vista che vengono solo accennati. In generale, nessuno dei personaggi è inutile o gratuito. Riscoprire questo cinema-mondo debordante, pieno di vita e trasparente, nel secolo delle narrazioni a forma lunga e degli universi cinematografici è un’altra grande occasione per riflettere sulla galassia audiovisiva di oggi e per recuperare una prospettiva.

Il cinema di Yang è sempre stato, inevitabilmente, cinema della città. Taipei è il palinsesto dove tradizione e modernità si sovrascrivono e mediano costantemente con le istanze dell’uomo. Più di Tokyo e di Hong Kong, Taipei è il luogo dove le tradizioni antichissime sono tradotte dai linguaggi del capitale, delle vetrate dei grattacieli, delle multinazionali. Ciò rispecchia la condizione di Taiwan come la più complessa delle tre Cine. Rispetto alla Cina continentale, avvolta dai fuochi della rivoluzione, e quella coloniale di Hong Kong, Taiwan è la Cina più antica, quella che ha mantenuto il sistema di scrittura tradizionale e che custodisce (o crede di custodire) il fuoco della civiltà millenaria che la Repubblica Popolare ha abiurato, distrutto e poi recuperato per motivi opportunistici e commerciali nell’ultimo ventennio. Paradossale, se pensiamo che l’isola è stata l’ultima delle frontiere cinesi, e che è stata colonizzata stabilmente soltanto negli ultimi secoli della storia imperiale. Lo stesso Yang è nato a Shanghai e si è trasferito a Taiwan con la famiglia in seguito alla vittoria comunista; il trauma dell’emigrazione riaffiorerà spesso nel suo cinema. Taipei è il luogo dove queste complesse stratificazioni si abbracciano nello spazio di un’immagine. In questo testo urbano e cinematografico la modernità si fa lampante come la luce del neon, la posta in gioco è trasparente. Ed è questo il terzo motivo per rivedere Yang oggi: ci restituisce una prospettiva da cui vedere con chiarezza l’orizzonte della modernità in cui siamo immersi, che ci impedisce la distanza critica della comprensione. Ci racconta di quello che sta succedendo oggi, nelle nostre case abitate da tensioni sorprendentemente simili a quelle di una famiglia di immigrati nella Taiwan degli anni Ottanta e Novanta. Ci ricorda delle bombe che piazziamo nelle nostre vite, come ebbe a dire il regista a proposito di The Terrorizers.

Non sorprende più di tanto che, per vedere noi stessi, sia necessario passare per un’isola dall’altra parte del mondo, sospesa tra almeno quattro differenti scenari del presente (la Cina, il Giappone, gli Stati Uniti e le radici locali): è solo nei territori di confine, nelle colonie e nelle periferie che è possibile cogliere le trasformazioni geopolitiche in conflitto e confrontarle con altre visioni del mondo, magari altrettanto totalizzanti e inappellabili. Da quando abbiamo accettato la nostra versione della modernità come un fatto compiuto e non come un processo, il nostro cinema ha smesso di fotografarne le logiche e le pratiche, preferendo i frammenti e i gesti di ribellione simbolica. Per recuperare la necessaria razionalità e l’onestà di domande formulate in modo non retorico, dobbiamo guardare altrove. Nelle opere di Yang, ad esempio, che interrogano e rispettano il ricco alfabeto delle cose. I suoi film sono “immagini di un’epoca”, come Yang stesso ebbe a definire A Brighter Summer Day, ma le sue immagini sono più vicine al panorama che alla cartolina da una esotica Taipei di un lontano Oriente. In questo spazio estetico e urbano, in questo mondo che di lineare ha ben poco e che tende alla densità di una mappa geografica, prendono forma i temi che ricorrono più spesso nella filmografia dell’autore: la famiglia, la coppia, l’arte e le sue responsabilità nella società contemporanea. Ulteriori venature di un testo onnivoro dai confini liquidi e mai scontati, che meriterebbero molte altre parole che qui non è il caso di spendere. Il miglior modo di attraversare questo mondo è quello di immergervisi, con le giuste mappe e la predisposizione a perdersi, ritrovare la strada e ripartire.

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[1] Commento di Tony Rayns all’edizione DVD/Bluray di A Brighter Summer Day, edita da Criterion.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 20/09/2016
Regia: Edward Yang

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