A Confucian Confusion

di Edward Yang

Un'istantanea della Babele di Taipei nella sua contemporaneità, fra vita frenetica, interessi economici, tradimenti, sorrisi di facciata e depressione cosmica.

A Confucian Confusion di Edward Yang è un’ellissi, è un dedalo, è un mosaico. È la Taipei del ’94, benestante dopo vent’anni di crescita incontrollata e ora, proprio per questo, mai così frenetica, caotica, spersonalizzante, sottilmente perfida nei suoi sotterfugi, nelle sue gelosie, nelle sue incomprensioni, nel suo cinismo e nel suo costante “andare in scena” – la finzione supera la realtà, la meticcia, la sostituisce, la rappresenta fino a coincidere.

A Confucian Confusion è la fiducia che viene meno, sono i rapporti umani che si incartapecoriscono negli interessi fino all’egoismo e alla solitudine, è l’identità di una Taiwan sempre più incerta fra l’occidente statunitense, agognato e ormai pressoché raggiunto in vent’anni di continua espansione economica, e le radici ancora profondamente immerse nell’oriente e in Confucio, un riferimento così riadattato al raggiungimento e mantenimento del successo lavorativo da essere però travisato, ridotto alla stregua di un breviario di aforismi da cui carpire consigli senza che si debba credere realmente ai suoi dettami. “Lo spettacolo è buono?”, si chiede l’autore teatrale nel film, per poi arrivare al vero punto: “venderà?”.

A Confucian Confusion punta la luce sulla linea di demarcazione a volte invalicabile fra arte e successo, mettendo in scena la pubblicità contro la letteratura, la finanza contro il teatro, il compromesso contro la coerenza, la convenienza contro l’etica, un sorriso di facciata contro la promessa – mai mantenuta – di un pugno in faccia.

È un’intera città declinata nelle anime dei protagonisti, nebulizzati e poi fagocitati da quella stessa società capitalista che vivono e portano avanti. Sono scrittori, teatranti, dirigenti d’azienda, attori, conduttori televisivi, consiglieri politici, uomini d’affari, capitalisti pronti a vendere sogni e bugie, ma anche a vivere disillusioni personali e lavorative, a scaricare barili e a dissimulare crisi, a tampinare la provocante attricetta o l’assistente di turno, fino a quando, da uno stile di vita viscido e fondato sulla menzogna – perché anche “recitare è un po’ come mentire” – non sarà l’umanità primigenia a bussare ancora alle porte, in una folgorazione sulla via di Damasco, in un crollo nervoso, in una confessione di vero amore mentre si rompe l’unione di facciata, in una lacrima all’ospedale, nella tenerezza dell’abbraccio finale – quasi come un Hong Sang-soo d’antan – fuori dall’ascensore.

Dal caos “scientifico” dei primi rulli, introdotto dal movimento circolare sui pattini del teatrante d’avanguardia pronto ad esordire nella pubblicità, i dieci e più protagonisti andranno via via a svelare i loro legami passati e presenti, i fili invisibili fra di loro come se fossero marionette dello stesso spettacolo, rotelle dello stesso ingranaggio, pianeti dello stesso sistema solare: Taipei, al punto zenitale della propria espansione capitalistica, ma con le prime avvisaglie della crisi che sarebbe arrivata di lì a breve già alle porte.

Presentato per la prima volta nel luccicante concorso della stessa Cannes 1994 che lanciò definitivamente Quentin Tarantino tributando la Palma d’Oro a Pulp Fiction, il quinto film di Edward Yang è la sua sortita nella commedia corale dopo il dittico tragico formato da Taipei Story più The Terrorizers, e l’adolescenza degli anni Sessanta vista retrospettivamente fino a penetrarne l’essenza più intima in A Brighter Summer Day. A Confucian Confucion è quindi un bruciante ritorno alla contemporaneità della medio-alta borghesia, un racconto capace di declinare, in un paio di giorni di dialoghi serrati fra intrecci labirintici di personaggi, uno spaccato di quegli anni, di quella vita e soprattutto di quella capitale, fatta di enormi spazi vuoti, di vicoli stretti e di scorci dalle finestre. Yang non si concede mai un totale per mostrarla, ma la lascia come un fondale, come uno scorcio apparentemente casuale che fa sporadicamente capolino in un dramma di quasi soli interni, affidando a chi la abita, i personaggi messi in scena, il compito di parlarne e di viverla nella sua estrema frammentazione, raccontandola e mettendola in mostra in tutte le sue ambiguità e in tutte le sue ipocrisie, ma anche nei suoi pentimenti e nei suoi passi indietro dai quali ripartire nella giusta direzione.

A Confucian Confusion è un film d’atmosfera, è un’impressione, è un calderone poetico e narrativo, una babele di personaggi e situazioni che si intersecano per i motivi più disparati e vanno a creare un mosaico episodico costruito sui dialoghi, sempre in due per volta, con tutte le combinazioni di personaggi possibili che vengono alternate per fare emergere il loro passato, le loro parentele, i loro intrighi amorosi e lavorativi. Quando un terzo personaggio entra in scena, uno dei due presenti in precedenza esce, lasciando sempre spazio ai long take sui piani a due, spesso fissi, a volte variati nelle panoramiche circolari o nei rari carrelli a precedere tipici di Edward Yang. L’immagine, quasi a riprendere gli esordi con That Day On The Beach, è costruita sui contrasti fra i caldi e i freddi, sui riflessi degli specchi, sui punti di fuga negati alternati ai controluce ariosi nelle finestre spaziose. Ma non è tanto la ricerca dell’inquadratura a interessare il regista, quanto piuttosto la pura messa in scena, la concitazione dei dialoghi e dei gesti, le emozioni dei personaggi e degli attori, le profonde sfaccettature dei rapporti umani, il loro senso di vuoto nel rutilare incessante delle loro vite. A Confucian Confusion è una forma irregolare, al contempo sinuosa e spinosa, è realismo che si fa impressione, è quotidianità che si fa cinema.

Nei deliri mistici dello scrittore ritroviamo le due anime che pervadono la società: quella del fiore e quella del ratto, ovvero l’eterno scontro fra la popolarità e la dannazione eterna, fra il successo lavorativo – mentre magari la vita va a rotoli – e la condanna a dover rivivere tutte le proprie pene anche dopo la reincarnazione. A Confucian Confusion non è in questo senso la ricerca dell’ottimismo perduto, ma la più semplice tensione a una vita onesta, un percorso di riscoperta collettivo che possa rimettere in discussione l’intera collettività in un momento di crisi.

C’è il vuoto artistico dell’autore teatrale Birdy, c’è la crisi finanziaria della compagnia pubblicitaria fondata da Akeem e gestita da Molly, c’è la crisi esistenziale dello scrittore sposato con la sorella maggiore di Molly e c’è la crisi di idee del programma televisivo da lei condotto. E ancora, il fallimento artistico di Feng, attrice di spot licenziata da Molly in seguito a un equivoco e che ora Birdy vorrebbe come nuova musa, e il fallimento umano del viscido burocrate politico Ming, che vive ancora con i genitori e nel frattempo è in crisi anche con Qiqi, l’assistente dal cuore d’oro di Molly che verrà progressivamente risucchiata nella spirale (a)morale messa in scena.

Edward Yang studia i rapporti umani, ama profondamente i suoi personaggi, fa in modo che da tutti loro passino la narrazione, la poetica e la continua metafora di Taipei. Il risultato è il colpo di coda della capitale, il circolo vizioso del capitalismo, una sinfonia urbana di personaggi posati come pennellate su una tela, pronti a formare l’ennesimo straordinario affresco della carriera breve quanto luminosa di Edward Yang, in quello squarcio miracoloso che è stata la new wave taiwanese. È un cinema ellittico e complesso, è un flusso emozionale che crea caos per poter poi sfociare nel delta della lucidità politica e sociale, è un caleidoscopio di episodi la cui visione d’insieme è l’allegoria di un tempo e di un luogo, in un certo senso l’apice del discorso sulla vacuità alto borghese già intrapreso in Taipei Story e che proseguirà nei due successivi capitoli, Mahjong e Yi yi - e uno... e due.

Edward Yang porta sullo schermo un miracolo economico e anticipa quelle che saranno le sue macerie, sempre alla ricerca dell’identità più pura di Taiwan e di tutta quella tradizione millenaria cinese da portare avanti. A Confucian Confusion, nel suo rutilare, è una passeggiata nella contemporaneità, è un rondò, un viaggio nelle nebbie confusionarie di Taipei. Fino a quando, dalla cortina bianca del cinismo, delle soddisfazioni aleatorie e delle convenienze, non riapparirà finalmente una figura, il tesoro da trovare, il passato e il futuro, la salvezza: l’uomo.

Autore: Marco Romagna
Pubblicato il 18/10/2016
Regia: Edward Yang

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