Mahjong

di Edward Yang

“In questo mondo nessuno sa cosa vuole. Ti ringrazieranno se dirai loro cosa vogliono”.

Nel turbolento periodo a cavallo degli anni ’60 e ’70, alcuni agitatori dell’underground culturale giapponese avevano elaborato il cosiddetto fukei-ron o teoria del paesaggio.

Come spiegava Masao Adachi, sceneggiatore dei film più celebri di Koji Wakamatsu, ex membro dell’Armata Rossa giapponese e, per l’appunto, fautore del fukei-ron, l’idea alla base della loro teoria era quella che vedeva indissolubilmente legati il potere politico dominante e l’ambiente geografico circostante; a partire da questo assunto si sosteneva che le azioni di un individuo venivano influenzate, o in certi casi addirittura determinate, dallo spazio in cui egli si muoveva. La pensavano certamente così Koji Wakamatsu e Nagisa Oshima quando girarono, rispettivamente, Violence Without a Cause (1969) e The Man Who Put His Will on Film (1970), ma per rintracciare il senso più profondo del fukei-ron bisogna fare riferimento ad A.K.A. Serial Killer, enigmatico documentario del 1969 in cui Adachi, quasi a voler realizzare un manifesto programmatico della sua teoria, ha indagato la figura del serial killer diciannovenne Norio Nagayama semplicemente ripercorrendo con la macchina da presa i luoghi da lui frequentati dalla nascita al giorno dell’arresto: come a dire, in una formula estremamente semplificata, “diventiamo ciò che vediamo”.

Aprire con queste brevi righe un commento a Mahjong di Edward Yang può offrire qualche spunto di riflessione a patto di chiarire sin da subito che, nelle sue linee generali, il cinema del regista taiwanese ha ben poco a che vedere con la teoria del paesaggio.

Lo dimostra chiaramente l’esempio di A Brighter Summer Day (1991), il monumentale film di Yang che, ruotando attorno all’imprevedibile trasformazione di un giovane ragazzo in omicida, sembrerebbe mostrare qualche affinità con A.K.A. Serial Killer. Se però Adachi struttura la sua riflessione lungo le coordinate di una stilizzazione estrema, lasciando che a parlare siano solo i luoghi e un’occasionale voice over, Yang procede per accumulo, ammassando personaggi su personaggi per scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora di squilibri sociali, incertezze politiche, idiosincrasie culturali, conflitti intergenerazionali: un approccio frontale e diretto, quello adottato dal regista taiwanese, del tutto estraneo alla radicalità interpretativa di Adachi.

Il caso di Mahjong si presenta però diverso.

Sparita la dimensione di affresco narrativo ad ampio respiro, il penultimo film di Yang ricalca piuttosto le forme del pamphlet satirico-grottesco, presentando una carrellata di personaggi convulsi e privi di qualsiasi baricentro. La situazione narrativa che immediatamente si delinea appare decisamente schizofrenica: ci sono dei gangster che vogliono rapire il figlio di un imprenditore scomparso e c’è una ragazza francese che arriva a Taipei in cerca del suo amato, ci sono quattro giovani teppisti che sognano di fare fortuna con ogni sorta di inganno e c’è un ricco affarista inglese che guarda il mondo dall’alto credendosi onnipotente; ci sono poi allarmanti profezie e maldestri sequestri di persona, violenti omicidi e presunte case infestate. Sullo sfondo l’onnipresente Taipei, una metropoli tentacolare fotografata in un momento di esasperata modernizzazione, frutto di quell’irrefrenabile frenesia capitalistica che ha accompagnato Taiwan negli ultimi decenni del Novecento.

È proprio la città la vera protagonista: dalle strade trafficate ai club illuminati al neon, dagli imponenti grattacieli alle martellanti discoteche, tutto sembra guidare gli sventurati protagonisti lungo un’unica traiettoria, spingerne le aspirazioni verso la stessa direzione. I desideri e le speranze conoscono un solo linguaggio, quello del denaro e del potere al di là di ogni barriera etica: la città di Taipei, presente in ogni sua declinazione, è simile a una prigione di vetro, acciaio e cemento che prima culla e poi inghiotte le ambizioni dei suoi abitanti.

Torniamo per un momento in Giappone.

Quando tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta i sostenitori del fukei-ron leggevano il paesaggio come lo specchio opprimente dei poteri dominanti, il loro intento era quello di muovere una critica nei confronti della ricostruzione/modernizzazione del Giappone del dopoguerra avvenuta, era questo il problema, secondo canoni e dettami occidentali. Favoreggiata da un governo complice e asservito, la lunga occupazione americana sembrava aver messo in serio pericolo la vera identità del popolo giapponese. Erano quelli gli anni degli scioperi operai e delle manifestazioni studentesche, degli scontri tra lo Zengakuren e i corpi di polizia, degli atti terroristici e delle proteste contro il rinnovo dell’ANPO. Nulla di tutto questo avveniva nel Taiwan degli anni Novanta, quando Edward Yang realizzava il suo Mahjong e il Paese si trovava al culmine della sua crescita economica: “Entro dieci anni questo posto sarà il centro del mondo” dice uno dei personaggi in un illuminante passaggio del film. Di fronte alla prospettiva di una ricchezza sempre più alla portata di tutti, è questa una delle più rovinose illusioni del capitalismo; l’adesione comune alle spietate leggi del mercato non incontrava opposizioni. In questo contesto il film di Yang sembra assumere i contorni di una resistenza isolata, configurarsi come un monito contro una società alla deriva che ha accettato troppo facilmente di sacrificare i suoi valori in nome dell’avidità e dell’accumulo frenetico di beni. “Questa parte del mondo può essere un grande posto per molte cose, ma forse non è il miglior posto per l’amore” sostiene nei primi minuti del film la cinica e spregiudicata Ginger, il cui unico desiderio è quello di trasformare in prostituta la giovane Marthe.

Se c’è un tema su cui Yang sembra insistere con particolare forza è quello della confusione identitaria che, dopo aver costituito un’annosa questione nel Taiwan post 1949, esplode con nuovo vigore nella società ultra-globalizzata.

Nel già citato A Brighter Summer Day, il regista taiwanese aveva raccontato la condizione di incertezza e precarietà in cui viveva la generazione del dopoguerra, estranea e ostile alle tradizioni dei padri emigrati dal continente. Nelle ultime fasi del secolo, la frattura identitaria ancora aperta si allarga a dismisura. L’euforia provocata dal boom economico porta in secondo piano il ricordo dello sradicamento, l’appiglio trovato nel capitalismo sfrenato fa provare una vertigine inedita, è ora possibile affacciarsi sul futuro e dimenticare il passato.

Le identità si intrecciano tra loro: in Mahjong i quattro ragazzi protagonisti esistono solo in quanto gruppo, si scambiano le ragazze allo stesso modo degli oggetti, condividono l’atto sessuale ma proibiscono l’innamoramento. La nuova società taiwanese promuove l’individualismo a scapito dell’individualità.

Pur in uno scenario di questo tipo però, Yang crede ancora nell’umanità dei suoi personaggi ed è solo grazie a questo che il suo pessimismo non si fa mai cinico. Il suo sguardo resta sempre rispettoso e partecipe, empatico nonostante il distacco di cui si serve per dare loro la giusta libertà di movimento. In un contesto in cui tutti i valori appaiono ribaltati, l’innamoramento rappresenta un vero e proprio atto di ribellione, una leva per scardinare un sistema cinico e implacabile: è per questo motivo che, nell’ultima toccante scena, Yang lascia finalmente sullo sfondo la città e dà centralità al bacio dei due protagonisti, un atto liberatorio e catartico, negato per tutta la durata della pellicola, ora pronto a sancire con una nota di speranza l’avvenuta emancipazione di Luen e Marthe dalla disumanizzante prigione di Taipei.

Autore: Emanuele Mari
Pubblicato il 26/10/2016
Regia: Edward Yang

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