Strange Birds

Lolita Chammah e Jean Sorel in una storia d’amore platonico tra una ragazza di provincia e un attempato libraio del quartiere latino di Parigi.

Nella prima scena di Strange Birds, subito dopo i titoli di testa, Lolita Chammah si ferma, disorientata, al centro di un percorso pedonale immerso nel verde. Come un uccellino impaurito, la giovane donna tira su la gamba destra e si gratta rapidamente la pelle, ricoperta da lunghe calze nere, all’altezza del ginocchio, mentre volta il collo da una parte e dall’altra, intimorita da qualcosa. È di qui, da questo semplice gesto, assimilabile, nella mente della regista Elise Girard, all’atteggiamento posturale di un volatile, che nasce l’idea degli “strani uccelli” del titolo. Due parole che nel titolo originale francese (Drôles d’oiseaux) possono indicare, in senso metaforico più ampio, anche soggetti buffi, individui strambi e atipici, come i due protagonisti di questa breve opera (72 minuti appena), presentata in anteprima al 47esimo Forum della Berlinale 2017 e ora in concorso alla 53esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

L’attrice figlia di Isabelle Huppert è Vivianne Dolmane (detta Mavie, ma-vie, la mia vita), una ragazza di provincia che ha da poco lasciato Tours alla volta di Parigi. «Per respirare meglio», dice. Spaesata e inesperta dei dinamismi d’una grande città, Mavie sembra appartenere ad un altro secolo più che ad un altro spazio urbano contemporaneo. Sospesa tra antico e moderno (al contrario dell’ultimo Assayas, nella Parigi di Girard non ci sono smartphone, cuffiette, vestiti alla moda o motorini nel traffico), Mavie si concede lunghe passeggiate per le strade della Ville Lumière per poi rifugiarsi in un cafè, tra le pagine dei libri e le righe di un taccuino cui affida la sua personale flânerie metropolitana. Un giorno la sua solitudine incontra quella di George, un librario tre volte più vecchio di lei interpretato dall’indimenticabile (eppur dimenticato) Jean Sorel, ormai più che ottantenne. Un uomo cinico, misantropo, misteriosamente ricco, nonostante la libreria perennemente deserta. Ne nasce una storia d’amore impossibile, complicata dal torbido passato di George – una sorta di Ferlinghetti modellato su alcuni tratti del Burt Lancaster de Il Gattopardo (non a caso il suo vero cognome è proprio Salina) –, costretto pian piano a scomparire da Parigi e dalla vita di Vivianne per tutelare se stesso e la propria amata; pronta, ora, grazie ai suoi lasciti, ad affrontare con maggiore consapevolezza e preparazione l’età adulta.

Un eclissamento, quello del vecchio librario, che considerando la cinefilia della Girard, determinata ad inserire Sorel nel cast dopo averlo rivisto in un documentario su Marcello Mastroianni sebbene non fosse propriamente semplice rintracciarlo, non può che rimarcare il lento oblio subìto dall’attore che lo interpreta, protagonista, negli anni Sessanta in particolare, di una carriera folgorante al fianco di registi come Lattuada, Bolognini, Risi, Bunuel, Visconti e Lumet, e scomparso, ormai da anni, dagli schermi cinematografici e televisivi (è interessante che sia proprio George a dire che i parigini sono ormai diventati superficiali e «illetterati», e che è «come se gli anni Sessanta non fossero mai accaduti»).

La storia del cinema diventa allora il bacino privilegiato per recuperare elementi utili a plasmare luoghi e personaggi e costruire rimandi intertestuali e mise en abyme. Si prenda, ad esempio, la proiezione cui la protagonista assiste verso la fine, Vivere in fuga, il film diretto da Sidney Lumet alla fine degli anni Ottanta in cui i due protagonisti fanno esplodere un laboratorio di produzione del napalm per poi darsi ad una fuga rocambolesca puntellata da continui cambi di identità: vi si respira la stessa aria di protesta che in Strange Birds è riservata al nucleare e che segnerà poi la futura identità di Mavie. Lì il Vietnam e le armi chimiche, qui le radiazioni di ?ernobyl’ e Fukushima.

Per non parlare del modo in cui il direttore della fotografia Renato Berta (uno dei più grandi nomi della fotografia europea) filma i ponti sulla Senna e le facciate dei palazzi parigini, memore dell’infatuazione della regista per Vincent Minnelli. Una stratificazione che, seppur intellettualmente stimolante per gli appassionati in grado di cogliere analogie ed ammiccamenti, non solleva il film da alcune criticità. A partire dallo stile registico, contrassegnato da una grammatica basilare e da una ricerca estetica non sempre ispirata e ricca di iris che appesantiscono la punteggiatura del montato, per finire poi con alcune forzature di sceneggiatura. Compresa quella riguardante i gabbiani in caduta libera che Mavie vede fantasiosamente come kamikaze pronti a commettere suicidio, e che in realtà non sono che le prime vittime indifese di un avvelenamento di cui solo lei e il giovane che incontrerà alla fine sembrano rendersi conto. Efficace, invece, la colonna sonora di Berand Burgulat, registrata in uno studio – il Melodium di Montreuil – dotato di strumenti degli anni Settanta che hanno permesso al compositore di forgiare un sound a metà strada tra sonorità vintage più analogiche e moderne incursioni elettroniche, riproposizione in chiave musicale dello straniamento temporale che riguarda il rapporto tra la Mavie “novecentesca” e la Parigi del nuovo millennio.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 21/06/2017

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