In nomine Satan

Nel gennaio del 2004, nella provincia di Varese, una pattuglia di carabinieri ferma Andrea Volpe, un giovane esagitato e palesemente imbottito di stupefacenti che cammina per strada dando in escandescenze. Il giovane afferma che lui e la sua ragazza, Elisabetta Ballarin, sono stati aggrediti nel bosco lì vicino da un gruppo di delinquenti. Ma i carabinieri trovano la giovane in una macchina ferma vicina ad un muretto, viva ma in stato di shock, e decidono di portare i due ragazzi in ospedale. Non ci vuole molto per scoprire la verità: i due ragazzi non sono le vittime, ma i carnefici, colpevoli di aver brutalmente ucciso Mariangela Pezzotta, ex fidanzata di Volpe, e di aver tentato poi di occultare il cadavere. Pian piano gli inquirenti iniziano ad accorgersi che quello che sembrava il solito omicidio passionale nasconde in realtà molto di più, una pista nella quale sono coinvolte molte più persone e che forse può essere la chiave per risolvere molti casi di sparizioni e omicidi passati. Era il 2004, appunto. Sugli schermi italiani, dopo quell’arresto, inizia a rimbalzare, da un palinsesto all’altro, il nome delle Bestie di Satana. Nei salotti di ogni famiglia entra prepotentemente il termine “satanismo”; si parla di sette, di riti di iniziazione, di cocktail di alcool e droga, di omicidi sacrificali. Il perbenismo borghese è intaccato dalla conoscenza di una serie allucinante di atti efferati e folli, compiuti da giovani sbandati che, consapevolmente o no, hanno scelto di abbracciare e servire il male.

Dieci anni dopo assistiamo alla proiezione di In nomine Satan. Il film si presenta come tratto da una storia vera: da una base di cronaca nera, il regista Emanuele Cerman (alle prese con il suo primo lungometraggio) ha condotto in avanti questa storia ampliando le sue pieghe e romanzando i suoi contenuti. È quello che si può definire un film low-budget: a spese ridotte e girato in 10 giorni, il complesso delle lavorazioni post-riprese è durato non più di tre mesi. È forse un’ulteriore prova, questa, che non sempre a grandi spese di produzione corrispondono grandi film. Nonostante i costi contenuti, infatti, In nomine Satan è un buon prodotto, frutto del lavoro di un regista alle prime armi con questo tipo di creazioni filmiche e di un cast (non tutto però) che ha saputo essere all’altezza dei ruoli da svolgere. La pellicola riesce, attraverso la serie di flashback rivelatori, ad aumentare ad ogni fotogramma l’ansia nella mente del fruitore. La macchina da presa, prevalentemente condotta a spalla, dona alla storia quasi una parvenza da documentario, da servizio di cronaca, e il tremolio delle immagini amplifica il disagio nella fruizione. La violenza della storia, che troppo facilmente poteva essere mostrata tramite immagini forti, punta ad essere prettamente psicologica: le efferatezze vengono solo suggerite, ed è l’immaginazione dello spettatore a doverle ricreare. Perché la violenza, prima ancora che nei gesti compiuti, è nei pensieri di questi giovani. Invece di un’accusa diretta e scontata nei confronti delle loro azioni, Cerman predilige una pluralità di punti di vista che destabilizza chiunque voglia ergersi a giudice assoluto: ora vediamo il tutto con gli occhi dell’omicida, ora con gli occhi della vittima, ora con quelli del poliziotto. Si badi bene: siamo molto lontani da qualsiasi tentativo di giustificazione. L’invito è quello di tentare ad andare oltre alle dichiarazioni e alle apparenze della vicenda. Dietro alla serie di atti spavaldi e folli c’è un mondo di fragilità e sofferenza che ha trovato la sua valvola di sfogo nel provocare dolore: si abbraccia il male perché si è subito il male. Il dichiararsi “devoti a Satana” può paradossalmente essere paragonato alla coperta di Linus: di fronte ad uno smarrimento che non trova fine, si cerca sicurezza in un senso di appartenenza che ponga un freno al nostro vacillare. E una volta trovato, lo si alimenta e lo si amplifica fino a renderlo per noi reale, fino a credere ciecamente in esso. In questo caso Satana, ma la coperta poteva essere rappresentata da qualsiasi altro elemento. Ma anche qui, sarebbe troppo semplice il motivare ciò che è stato compiuto solo con il senso di disagio insito in questi giovani: da una parte c’è chi afferma “Ho fatto ciò che ho fatto perché speravo di non soffrire più”, ma dall’altra c’è chi esclama “Ho fatto ciò che ho fatto perché volevo diventare famoso”. Due aspetti diversi di una stessa fragilità forse, ma che non possono che portare a reazioni diverse. Allo stesso modo, In nomine Satan non permette di tracciare una linea netta che divida il bene dal male. Così come tra i cattivi esistono elementi buoni, anche tra i buoni – la polizia in questo caso – esistono elementi cattivi. Non c’è nulla di completamente nero ma non c’è neanche nulla di completamente bianco. Il grigio con le sue varie sfumature è forse l’unica prospettiva possibile per avvicinarsi alla verità, ma non per raggiungerla.

Autore: Lucia Mancini
Pubblicato il 18/08/2014

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