Happy Together

di Wong Kar-wai

Un commovente melodramma caratterizzato dalla malinconia e dai cromatismi del maestro di Hong Kong.

Dal punto di vista cinematografico è possibile rintracciare un solido cordone ombelicale che collega Hong Kong a Wong Kar-wai, e sostenere che l’una non esisterebbe senza l’altro e viceversa. Naturalmente si tratta di una consapevole iperbole, utilissima però a identificare una prospettiva importante dalla quale non solo inquadrare il cinema dell’autore cinese ma anche la rappresentazione della metropoli alla quale è indissolubilmente legato, e l’insieme di significati che grazie al suo cinema le sono stati attribuiti negli anni.

Hong Kong è presente in quasi tutti i film di Wong Kar-wai, manifestandosi in maniera forse ancora più interessante e in aspettata proprio nei casi in cui è apparentemente assente. Happy Together costituisce un caso paradigmatico a questo proposito, un’opera in cui Hong Kong non c’è praticamente mai, ma allo stesso tempo è tangibile in ogni fotogramma e linea di dialogo. Si tratta di un film sulle radici e sulla lontananza dalle stesse, in cui la messa in gioco di se stessi e della propria identità avviene proprio laddove non si ha nulla a cui aggrapparsi.

La celeberrima metropoli assume in questo caso una doppia forma, passando attraverso un processo di mutazione che ne restituisce sia una dimensione antropomorfa che una di tipo stilistico. Nel primo caso è come se la città fosse racchiusa dentro il protagonista, il quale, come tanti emigranti, porta dentro di sé le proprie origini, guardando il mondo sotto una prospettiva definita da orizzonti personali e profondamente influenzati dal proprio passato. Il secondo caso è identificato da un ragionamento un po’ più astratto ma non per questo meno efficace: se l’estetica di Wong Kar-wai è stata fino a questo momento quasi totalmente legata alla metropoli hongkonghese, allora è impossibile non vedere nella Buenos Aires di Happy Together, oltre che una città incantevole grazie a un uso commovente della luce e della messa in scena, anche una Hong Kong sotto altre vesti.

Happy Together racconta la storia d’amore tra Lai e Ho, due uomini di Hong Kong visceralmente innamorati l’uno dell’altro ma anche estremamente diversi. Ciò che li separa è molto più di ciò che li unisce, ma l’attrazione fisica e i sentimenti sinceri che provano garantiscono loro di superare tantissimi steccati e di estendere senza limite l’abituale soglia di tolleranza.

Si tratta senza dubbio di un modo ottimistico di vedere questo genere di relazione, o in ogni caso di una prospettiva che ne mette a fuoco solo una parte, per quanto in maniera assolutamente veritiera. Tuttavia va sottolineato come i due siano individui in preda a una lancinante solitudine, immersi in un paese straniero di cui conoscono pochissimo la lingua e privi di veri legami affettivi. In questa condizione, avvolti da una malinconia onnipresente e privi di qualsiasi appiglio alle proprie radici, i due protagonisti sono portati a viversi vicendevolmente anche come destinazioni obbligate, come inevitabili porti sicuri.

Uno dei più interessanti film di Truffaut, La signora della porta accanto, incentrato sulla travagliata storia d’amore tra i personaggi interpretati da Gérard Depardieu e Fanny Ardant, finiva con una frase di grandissima potenza, soprattutto se come in quel caso piazzata alla conclusione dell’intero percorso: «Né con te né senza di te». Queste stesse parole potrebbero essere utilizzate per descrivere in maniera sintetica quando efficace la storia d’amore tra Lai e Ho, uomini sicuramente innamorati l’uno dell’altro ma anche impauriti, costantemente con un piede dentro e uno fuori dalla porta e quindi incapaci di lasciarsi realmente andare.

Guardando poi più al contemporaneo, la storia d’amore omosessuale al centro di Happy Together ha diverse affinità con Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, sicuramente entrambi gli autori sono interessati a mettere in evidenza disfunzionalità simili. Come Reynolds e Alma anche Lai e Ho sono persone profondamente insicure, costantemente bisognose di attenzioni e soprattutto di gratificazioni, impossibilitati quindi a rivelarsi in totale trasparenza al proprio partner. In entrambi i casi viene utilizzato l’escamotage della malattia (o comunque dell’infermità fisica) perché nel momento in cui un handicap sbilancia l’equilibrio allora si crea una situazione di bisogno tale da dar vita a un rapporto di potere più netto interno alla coppia. Paradossalmente è proprio in questo caso che la relazione funziona, quando cioè l’egocentrismo viene messo da parte in favore del bisogno dell’altro e i personaggi iniziano realmente a mettersi in discussione. Wong Kar-wai è chirurgico nel descrivere questo tipo di processo, non lesinando in spietatezza quando ritrae la generosità come elemento inscindibile dalla paura (per quanto non motivata esclusivamente da quest’ultima) e la devozione sentimentale come conseguenza di necessità concrete.

Happy Together rappresenta uno degli esiti più alti del cinema di Wong Kar-wai, una straordinaria miscela tra la malinconia senza uscita che caratterizzava opere come Ashes of Time e l’esuberanza estetica di Hong Kong Express. In questo caso l’autore riesce a sviluppare entrambe le direttrici dando vita sia a un melodramma struggente incentrato su un amore impossibile ma di grande intensità, sia a una riflessione stilistica che fonde un bianco e nero estremamente affascinante con sequenze in cui la sperimentazione sul colore non solo rimanda agli stati d’animo dei protagonisti, ma a si esibisce in accostamenti puramente estetici di fronte ai quali non si può rimanere indifferenti.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 11/04/2018
Regia: Wong Kar-wai

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