Roma 2012 / Ixjana

La narrazione come principio generatore. Di immaginazione, sogni e incubi. La fascinazione del racconto come motore propulsivo di tutto, fuori e dentro il cinema. Questa è la tesi di partenza, Ixjana il suo feticcio. I registi Józef e Michal Skolimowski, figli del celebre Jerzy, firmano un’opera frammentaria e onirica, in cui la soluzione di un omicidio è l’esile fil rouge che tiene unita la narrazione. Se è vero che ogni tragedia si fonda sugli interrogativi “Chi sono?”, “Cosa è giusto e vero?”, Ixjana innalza questi interrogativi a laiche divinità esistenziali, dove la ricerca delle soluzioni è parte integrante delle esistenze che agitano l’opera.

Marek è un giovane scrittore la cui sua opera prima, grazie a fortunate amicizie, diviene bestseller. Ma a quella che sembrerebbe una inattaccabile panacea si vengono ad infiltrare idiosincrasie laceranti, che porteranno l’uomo a interrogarsi sul suo operato. Durante un party accompagnato da una sbornia colossale, Marek agisce privo di inibizioni e freni. Dal giorno seguente cercherà di scoprire cosa è veramente successo alla festa: l’uomo potrebbe aver ucciso il suo migliore amico e ad innescare le violenze potrebbe essere stata una donna contesa fra i due. Da qui Merek precipiterà in un universo tanto onirico quanto lisergico, dove cercherà di mettere in fila i suoi ricordi della notte brava troppo compromessi dall’uso di alcol e droghe. Dati ad essi una parvenza di coerenza lo scrittore si spingerà oltre, per sincerarsi del suo operato e far progredire la propria vita.

I fratelli Skolimowski realizzano un film labirintico e onirico, vero e proprio tributo alla narrazione e alla sua cruciale significazione. Marek per tutta l’opera cercherà di risalire alla sorgente dei suoi mali e nel farlo creerà lui stesso – come una sorta di deus ex machina registico – significato e coerenza nella narrazione. Ma questa possiede delle peculiarità ben definite: come le migliori sbronze ha memoria breve. Da qui il plot si articolerà in tanti blocchi disancorati dal racconto principale, con delle logiche interne a malapena legate con il corpus filmico. La resa di una narrazione drogata è esemplare: come in un videogame, la vicenda possiede un significato interno nei tanti blocchi su cui si fonda, ma il senso generale dell’opera sta in piedi a malapena esattamente come per un protagonista di un videogioco arcade, per il quale ogni livello ha un significato non sempre aderente con la trama che tiene in piedi tutto il gioco. Conseguentemente a Marek spesse volte succederà di compiere azioni senza particolare senso, nelle quali i significati non sono i significanti, dove la testualità e il contenuto sono appena intuibili.

I Skolimowski realizzano un’opera nella quale i pregi sono gli stessi difetti a lei afferibili. Ciò rivela in Ixjana una già matura competenza di scrittura che riesce ad esaltare e a tenere assieme scenari e orizzonti onirici, labirintici e multilivello, ma al contempo queste stesse frammentazioni determinano i limiti dell’opera, poiché ancora è palpabile una dimestichezza registica dei fratelli non all’altezza, che non fa deflagrare la potenza testuale a causa di disconnessioni troppo evidenti e fin troppo appesantite. Ma Ixjana va comunque ad ascriversi nel firmamento della settima arte più consapevole, che mentre si guarda l’ombelico riesce al contempo a riversare il suo sguardo verso il mondo extradiegetico. Una volta risolta la sintesi fra forma e contenuto Michal Skolimowski (il fratello Józef è recentemente scomparso) potrà aspirare a lidi ancora più alti.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 22/01/2015