Roma 2012 / Centro histórico

Nella prima giornata di proiezioni di questo Festival Internazionale del Film di Roma, ad allietare gli spettatori nella sezione CinemaXXI – Fuori Concorso troviamo un piccolo gioiello, anzi, quattro. Centro Histórico è infatti un lungometraggio composto da quattro singoli episodi ognuno dei quali è stato curato da un regista diverso, che ha caratterizzato il proprio lavoro secondo la propria personale visione. Il punto di partenza comune è stato la volontà di raccontare il Portogallo a partire da una delle sue città simbolo: Guimarães, il luogo dove è nata la nazione portoghese. Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Victor Erice e Manoel de Oliveira hanno voluto dare la loro versione di questa piccola cittadina, lasciando però che fossero i personaggi ad essa appartenenti a narrarne la storia.

Centro Histórico è costituito da quella che potremmo definire la “scorza” dell’intera opera, ossia il primo ed il quarto episodio, e dal cuore del film, ossia i due episodi centrali. Ciò che serpeggia nelle due vicende poste all’esterno è una pallida ironia: pallida perché sembra voler strappare un sorriso quasi vergognandosene, come se non fosse davvero il caso di ridere, eppure gli angoli della bocca si piegano all’insù che quasi non ce ne accorgiamo. Il merito di ciò è dovuto allo sguardo lucido e descrittivo di Kaurismäki e de Oliveira nei confronti di una triste realtà, ma che non per questo porta alla resa e alla totale introflessione di chi la subisce.

Con O Tasqueiro, Kaurismäki ha saputo dare un meritatissimo spazio al volto e all’espressività di un vecchio oste che, nel patire la povertà di una crisi affettiva prima ancora che economica, sa comunicare meglio con gli occhi che con mille dialoghi. Il silenzio stoico delle sue azioni controbilancia il rumore dell’infrangersi dei suoi desideri, sia che si voglia una clientela che non c’è, sia che si aspetti una donna che non arriva. Il montaggio attento e preciso enfatizza l’ironia di un amaro tentativo di reazione, e la ricercata neutralità dei tratti del viso del protagonista fa tristemente sorridere proprio perché si rivela per quel che è, cioè sentita e partecipe.

Manoel de Oliveira tratteggia invece con mirabile leggerezza l’evoluzione turistica (quasi da intendersi negativamente) che ha subito l’evento cardine della storia del Portogallo, ossia la sua nascita. In O Conquistador Conquistado, la statua del primo re del regno portoghese, Alfonso Henriques, è presa d’assalto dai flash delle macchinette fotografiche dei turisti. Attraverso delle riprese che mostrano la città di Guimarães come se fosse uno spazio metafisico, con le piazze e le vie vuote e disabitate, quella che emerge è la dimensione turistica appunto, la dimensione di coloro che sono solo di passaggio ma che desiderano comunque appropriarsi di qualcosa di fondante e costitutivo del luogo visitato, in questo caso la foto del conquistatore.

Il cuore di Centro Histórico mostra invece un’altra faccia: quella forse più riflessiva, che invita ad una maggior partecipazione mentale prima ancora che visiva. Costa ed Erice mandano il loro invito attraverso, rispettivamente, una storia di finzione e una sorta di documentario.

Lo Sweet Exorcist di Costa ( il cui titolo riprende il nome di un album di Curtis Mayfield) rimanda ad un dialogo teatrale alla Beckett: mentre nelle strade si compie la rivoluzione, il vecchio soldato Ventura ha una lunga conversazione chiuso nell’ascensore di un ospedale. L’interlocutore, il fantasma della guerra da lui combattuta, compie mano a mano un’azione esorcizzante, portando alla luce aneddoti e ricordi della vita passata dell’uomo. Sembra, appunto, un teatro dell’assurdo, la cui trama si svolge nel claustrofobico spazio dell’ascensore, con una precisa scelta, da parte di Costa, di tagliar fuori la città ed il suo volto. Claustrofobica è anche la sensazione che si prova, a volte, di fronte ai primissimi piani e alle inquadrature serrate dei personaggi.

Erice si è trovato alle prese, invece, con qualcosa che si potrebbe definire, nel suo insieme, scontato e prevedibile, ma così non è. Il suo Vidros Partidos affronta, con taglio documentaristico e di intervista, la storia degli operai che hanno lavorato nella “fabbrica delle finestre rotte” di Rio Vizela, un tempo la più grande industria tessile d’Europa, attiva dal 1845 al 2002, anno della sua chiusura. In un periodo come quello che stiamo vivendo, parlare di lavoro, specie di lavoro perduto, porta spontaneamente ad una reazione partecipe e comprensiva. Erice, con sullo sfondo una vecchia fotografia del refettorio della fabbrica, ha indagato i volti e le anime di questa azienda facendone parlare i protagonisti, dando libero spazio ai loro ricordi e ai loro aneddoti. Sebbene il finale con il fisarmonicista che suona una triste melodia – mentre i visi degli operai della foto vengono mano a mano inquadrati – possa apparire un po’ stucchevole, Erice ha il merito comunque di non calcare troppo la mano, non macchiandosi quindi di una eccessiva ricerca di facile sentimentalismo, già di per sé insito nella vicenda narrata.

Autore: Lucia Mancini
Pubblicato il 29/01/2015

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