Venezia 72 / Jia (The Family)

L’opera fiume dell’esordiente Shumin Liu è un film intimo e straziante, dove un Padre e una Madre, nomadi di un altro tempo, vagano nella Cina contemporanea.

Nell’intimità di uno sguardo che subisce il tempo, una coppia di anziani custodisce tenacemente la propria memoria. Incorniciati in ambienti domestici, tra salotti, cucine e camere da letto, marito e moglie ultrasettantenni viaggiano per garantire un futuro ai propri figli.

Jia (The Family) è un’odissea pudica e rigorosa che inscena un atto d’amore, l’ultimo e unico possibile, quello destinato a tutto ciò che sopravvivrà alla propria morte.

L’esordiente Shumin Liu dirige un’opera fiume folgorante e densissima, in grado di rivendicare un cinema che fa della durata interna di tutte le immagini il suo stesso ossigeno. Ogni singola inquadratura di Jia è cristallo di tempo, blocco di verità, respiro lento e profondissimo che si accende e si spegne sullo schermo, dando vita e movimento a un corpo che non può fare a meno di nulla, soprattutto di ciò che sembrava superfluo. Sono i tempi lenti, i piccoli sguardi, i gesti insignificanti a qualificare un’intera esistenza. E’ tutto ciò che non si credeva importante.

Il personaggio chiave della Madre, che dona amore senza avere nulla in cambio, ama e dedica ogni istante all’altro, trovando così l’elisir che la mantiene giovane e forte. E’ lei il cuore pulsante del film, il motore rovente, la sua stessa femminea potenza. E’ lei che garantisce gli equilibri mentre dispensa futuri possibili, è lei che pone le costanti, reiterando amorevolmente quei meccanismi che fanno da base, scheletro, colonna vertebrale alla struttura stessa di una famiglia – all’organizzazione stessa di una società. I luoghi che traccia sono geografie stabili, che rimangono salde anche quando il mondo intorno vacilla. Riunisce tutti sotto un tetto, dona loro un pasto caldo, allontana dolori e timori del contemporaneo, crisi economiche e morali, servendosi di una saggezza antica e inestinguibile.

Non a caso il centro nevralgico del film è la cucina, dove la donna si muove con agevolezza e amore, preparando pasti caldi e provvedendo a ogni singolo, eventuale problema.

Non meno folgorante è la figura del Padre, che pare inizialmente più duro e risoluto, per poi svelare tutta la sua toccante fragilità. Cammina gobbo e sommesso, palesemente bisognoso di cure e affetto, come se la malattia e la vecchiaia l’avessero ormai fatto regredire, trasformandolo di fatto nell’ennesimo figlio della donna. Conserva gli occhi lucidi di chi ha visto troppi inverni, di chi vorrebbe essere forte ma si rivela un uomo, soltanto un uomo.

Sullo sfondo rimane lei, la Cina, l’altra grande madre che invece cambia e dimentica. Traccia grattacieli e meraviglie tecnologiche mentre, a ogni passo in avanti, scivola verso un isolamento e una solitudine disarmanti.

Shumin Liu commuove per la delicatezza della messa in scena e per l’amore incondizionato che dona a ogni singola figura su cui si sofferma. Srive, dirige, monta, cura la fotografia della sua opera prima con una dedizione e con un coraggio esaltanti.

Il suo gesto filmico assomiglia alla carezza di un vecchio amico, al soffio leggero e freschissimo di chi ha voluto bene. Suo padre potrebbe essere Ozu e tutto Jia sarebbe allora il suo personalissimo Viaggio a Tokyo.

La macchina da presa, impugnata con una fermezza che si concede raramente a qualche liberatorio movimento di macchina, si pone a distanza, insinuandosi nei luoghi altrui come fosse un ospite timido e riservato. Non avanza mai troppo, rimane spesso fuori dalle stanze, lascia che gli stipiti incornicino un’azione che non vuole mai contaminare. Lascia, più semplicemente, all’immagine la sua purezza, concedendo pochi, preziosi primi piani, attratta com’è dal rigore ascetico di figure intere e mezzibusti. Permette che il suo film proceda fluviale, intercettando nella dissolvenza a nero lo spettro mortuario che abita tutto la sua opera.

In definitiva sono i suoi due grandi vecchi a osservare il mondo, a farsi testimoni di una realtà liquida, magmatica, sempre mutevole, che non vuole più comprenderli. Ci si ritrova così all’interno di una bolla, dove in continuazione lo spettatore guarda qualcun altro che sta guardando. Che cosa? Il mondo, in uno sguardo che slitta sempre, che non è a passo con i tempi, che si rivela straordinariamente, intrinsecamente inattuale. Come in quel momento bellissimo, quando il Padre osserva un album di fotografie sbiadite e indaga le pieghe del tempo, l’inossidabilità del ricordo, la forza che ci mantiene vivi.

Padre e Madre si spostano di città in città, visitando i loro figli, coltivando problemi e aspettative, sogni e frustrazioni. E poi ritornano soli, trovandosi a camminare lungo la Città del Sud, cuore del loro primo amore: sono loro, nomadi del tempo, custodi dei segreti di una Cina che non esiste più. Rimangono le rovine del passato, le fondamenta di un paese che vorrebbe estirpare i suoi fantasmi. Saranno loro a passare in rassegna la loro Storia, facendo della morte il trait d’union che li collega alle altre esistenze: cos’è il finale del film se non un passaggio di famiglia, una storia che inevitabilmente si ripete?

Quando infine abbiamo compreso le pieghe della storia e il ritmo della narrazione, Jia si apre al ricordo e a un passato che non può essere imbalsamato: le immagini di un altro tempo di una coppia felice che ride in bicicletta, di un bambino che gioca con le bolle di sapone. Il sonoro se n’è andato, non rimane che il silenzio, chimera di un mondo che non c’è più, sacro custode di una grazia e di una bellezza che niente potrà scalfire. Rimane, semplicemente, il cinema.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 03/09/2015

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