Venezia 2013 / The Sacrament

Cosa rimane dopo il fallimento delle utopie, il crollo della ragione, la devastazione, le macerie, il dolore, la povertà morale? Come il Lester Ballard/Figlio di Dio di James Franco, The Sacramentl’ultima opera dell’interessante autore americano Ti West emerge dalle viscere di un programma che pare fin troppo costruito e indirizzato nel riassumere le tensioni della contemporaneità, le paure, le angosce, gli smarrimenti di un mondo/cinema alla deriva che vaga a tentoni tra sperimentazioni, azzardi teorici, fredde autopsie (già) post-umane, alla ricerca di risposte o forse anche solo di un appiglio contro la morte dell’immagine, la fine del sogno. L’emersione coincide (ancora una volta nell’horror) con l’immagine autoriflessiva, il mockumentary, forse l’ultimo dei generi (o sottogeneri) che ha ancora fiducia nell’immagine come veicolo di emozioni, come strumento baziniano di rappresentazione della realtà. Quello che Ti West dimostra però di non sapere è che per risultare credibili non sono ammesse incoerenze e che basta anche solo un dettaglio fuori posto per far implodere la delicata impalcatura narrativa che sorregge questo tipo di operazioni.

The Sacrament segue un gruppo di corrispondenti di Vice lungo il viaggio alla ricerca della sorella di un loro amico che vive da tempo in una comunità utopica religiosa denominata Eden Parish, collocata in un indefinito geografico fuori dai confini americani. Qui vivono oltre duecento persone che hanno scelto, per le ragioni più svariate, di separarsi dal mondo civilizzato e di costruirne uno a misura d’uomo dove non esiste la violenza, l’intolleranza, la povertà. Il film descrive la comunità attraverso il doppio punto di vista dei giornalisti e delle loro piccole telecamere, con uno sguardo al contempo cinico e stupito, diffidente, soprattutto nei confronti del capo carismatico, “padre”, sorta di santone a metà tra un leader socialista e un predicatore, ma anche “meravigliato” da questo micro mondo dove l’unica cosa che conta è la felicità. Ma è davvero possibile vivere separati dalla civiltà? Fino a che punto può durare una società chiusa e spaventata dall’esterno come questa? Saranno proprio i giornalisti, gli stranieri venuti da lontano, ad incrinare inconsapevolmente gli equilibri, innescando una spirale distruttiva che non risparmierà quasi nessuno.

Alle telecamere spetterà il compito di filmare, ora nervosamente, ora in modo impassibile, la strage di massa. Nella sequenza più riuscita del film addirittura gli eventi vengono catturati automaticamente senza regista né occhi umani, come se le telecamere fossero (da sempre?) in grado di filmare da sole il mondo e di poter dunque continuare ad esistere e a riprendere anche dopo la distruzione, dopo la scomparsa dell’uomo. È per questo motivo che malgrado i tanti difetti, le debolezze strutturali, le imprecisioni, i passaggi a vuoto, viene voglia di difendere questa piccola opera così ostinatamente convinta del potere del cinema, della forza del dispositivo; che va in controtendenza rispetto alle riflessioni più profonde e radicali di questi anni (Effetti collaterali, Holy Motors, The Canyons) che hanno celebrato (e continuano a piangere) la morte della macchina. No, Ti West ci crede ancora ciecamente, talmente tanto da consegnarsi senza difese alla disfatta filmica e al ridicolo involontario pur di riaffermare la centralità del mezzo, la necessità, malgrado tutto, di continuare a fare cinema.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/12/2014

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