Room

Non un film sullo spazio e la fuga da esso, ma una catena di occasioni sprecate, il cui limite più grave è non affidarsi mai al potere dell'immagine per raccontare la libertà dei suoi personaggi.

Little boxes on the hillside,

Little boxes made of ticky tacky,

Little boxes on the hillside,

Little boxes all the same.

Topo, Armadio, Letto, Lucernaio, Cucchiaio. Stanza. Tutto il mondo di Jack e Ma’ si limita a Stanza, l’unico ambiente che esiste oltre a Spazio, il vuoto esterno che circonda ogni cosa, troppo immenso perché gli alieni che lo attraversano possano sentirci urlare.

Cinque anni e un giorno, Jack ha vissuto sempre e soltanto dentro Stanza, un mondo di 9 metri quadrati all’interno del quale ogni oggetto è unico. Ecco così che l’armadio diventa Armadio, il letto Letto, un topo in cerca di cibo Topo. Il linguaggio è il modo che abbiamo per conoscere e plasmare il mondo, e con esso il piccolo Jack nomina ogni elemento di Stanza, trasformando una cosa qualunque in un’entità unica da personificare e salutare giorno dopo giorno. Quello di Jack e Ma’ è il mondo prima della moltiplicazione dell’essere, condizione quasi ideale nella quale l’idea e l’oggetto vivono un rapporto univoco ed esclusivo. Come già in Kynodontas, l’esclusione dal mondo e la sua reinvenzione in scala ridotta passano per l’alterazione del linguaggio. Tuttavia, a differenza del freddo cinema a tesi di Lanthimos, Room di Lenny Abrahamson vuole raccontare la fuga a discapito dell’imprigionamento, la libertà di scoprire ed evadere dal trauma come una seconda possibilità di venire al mondo.

Quella di Jack e Ma’ è una prigionia artificiale, una costrizione mostruosa che diventa favola agli occhi di Jack solo grazie ai ripetuti sforzi di Ma’, che trasfigura la realtà in cui i due sono costretti a vivere per preservare l’innocenza del piccolo. La verità infatti è brutale, e Abrahamson la lascia emergere soltanto verso la metà del film, quando il bluff viene scoperto e Room sembra per un attimo un abile esercizio di illusionismo capace di sovvertire i generi. L’idea di fondo è infatti quella di sviluppare uno spunto da puro film di genere con un linguaggio totalmente mistificante, più intimista e familiare, totalmente introiettato nel rapporto madre-figlio. Ma se l’intuizione è buona il film si rivela una catena di occasioni sprecate, colpa soprattutto di uno sguardo registico drammaticamente povero, incapace nella prima parte di suscitare un autentico senso di claustrofobia, e nella seconda di creare alcuna poetica della meraviglia.

Diviso in tre sezioni nette – prigionia, fuga, adattamento con il mondo esterno – Room dovrebbe essere un film sullo spazio, tanto quello reale quanto quello immaginato. E se nei primi momenti le parete di Stanza sembrano effettivamente esplodere sotto i colpi dell’immaginazione di Jack, con il procedere della narrazione Abrahamson non riesce mai a restituire l’oppressione mortifera e disperante di un luogo di violenza, isolamento e stupro. Ne vediamo le sezioni scomposte, i particolari studiati al millimetro, ma Stanza non diventa mai un’entità dalle immagini autenticamente significanti, e il peso allegorico di cui si fa carico nel corso del film non aiuta certo le cose. Ma quello di Room è un generale problema con l’immagine e lo sguardo, il limite di un film che si affida ad una stanca voce narrante per raccontare la meraviglia più pura di un bambino lanciato nello scoprire il mondo. Ad evidenziare questo problema è soprattutto la parte finale, nella quale Abrahamson sembra muoversi con difficoltà crescente nel mondo esterno; più i suoi personaggi evadono e anelano di scoprire e riscoprire il mondo, più Room sembra volerli restituire alla restrizione degli interni familiari, teatro tra l’altro di un’ultima mezz’ora totalmente inerziale e priva di scopo, un procedere rutilante senza direzione e intenzionalità forti. Per essere un film sulla libertà e il superamento del trauma, Room si rivela un’opera davvero troppo ancorata al terreno, all’assenza di immagine della parola, a marche stilistiche dell’indie americano che pesano in tutta la loro pretestuosa ricerca di genuinità.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 17/10/2015

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