Ferrari

di Michael Mann

You cannot negotiate with gravity: assimilata la decostruzione digitale di Blackhat, Mann firma la sua opera più funerea, una resurrezione del classico in vesti aggiornate tramite cui rinegoziare le possibilità mitopoietiche della propria estetica nella relazione tra personaggi e mondo.

Ferrari rece film mann venezia

“He died in a metal I made for him”. Mosso da un opaco senso di responsabilità, è con queste parole che Enzo Ferrari rivendica il proprio ruolo nella morte di uno dei suoi piloti. L’ossessione e la pressione psicologica si propagano da lui a dipendenti e collaboratori, nella velocità crescente si accumulano punti ciechi, le lamiere sono costantemente prossime a piegarsi, la carne a infrangersi. Non fosse un film costituzionalmente funereo, Ferrari, gronderebbe sesso. Sperma e umori il controcampo di ogni frenata, frizione, accelerazione. Crash. Manca invece l’impulso vitale, la contropartita, Ferrari è storia di vedove, bastardi, genitori mutilati senza più figli, ciascuno ha perso un qualche amore, e la vita si riduce a una condizione di morte in respirazione residua, stato in luogo di una convivenza con la fine che opera secondo regole di un gioco in cui vince chi sfiora la morte più da vicino. Non a caso Ferrari si apre e chiude con una visita al cimitero: l’Enzo Ferrari incarnato da Adam Driver è un carnefice che finge di essere martire, saturno divorante i propri figli lo chiamano i giornali, becchino che sigilla in tombe di metallo i suoi piloti uno dopo l’altro, interscambiabili. Il ritratto del grande fondatore non è proprio edificante. Ma Ferrari è anche un uomo tormentato da fantasmi, visitato da ricordi, volti, voci senza corpo, sogni abitati da morti in risposta ai quali predica all’altare della perfetta fede ingegneristica dell’acciaio e dei motori, l’oliata meccanica dell’ingranaggio, l’ottimizzazione millimetrica dei flussi di carburante, la massima resa tecnica che sempre, come in natura, corrisponde dice all’assoluta bellezza estetica.

Resterà spiazzato chi si aspettava da questo biopic lungamento rincorso (le prime versioni della sceneggiatura risalgono agli anni 90) un film adrenalinico e aggressivo, quel cinema muscolare che Michael Mann ha contribuito a forgiare e di cui ci ha regalato gli esempi più complessi e magnifici. Ugualmente deluso rischia di rimanere chi cerca in Ferrari una prosecuzione del discorso portato avanti da Blackhat, quella riflessione sulla relazione acida tra immagine digitale, corpi e informazione, rete globale e individualità, che di fatto il film precedente portava al punto di saturazione, risolvendola in una nuova forma di sintesi tra sistemi sintetici e carnali sussunta dalla sparizione finale, la fuga tra le maglie del codice, chiudente quella storia e quel percorso teorico lungo buona parte di carriera. Il Mann di Ferrari, insomma, non è quello del digitale avanguardistico e sperimentale inseminato in Insider e fiorito tra Collateral, Miami Vice, Nemico pubblico e Blackhat. Quella sequenza – impressionante e imprescindibile da ogni punto di vista – dialoga con Ferrari nella marche stilistiche, certo, nel bisogno umanista di divergere, di scartare dal cuore apparente della scena verso un dettaglio, un respiro sulla pelle o il vento sulle foglie, sapendo che è lì, nei luoghi in cui lo sguardo sa fermarsi quell’attimo in più dell’apparente necessario, che vive il cuore delle cose. Altrettanto coerente è l’uso dei primi e primissimi piani, quella costruzione manniana dell’inquadratura per cui il personaggio viene quasi aggredito dall’immagine, stretto al confine, schiacciato in una resa dei conti quasi mai espressa verbalmente perché risolta anzitutto sul piano della forma. Basta un ralenti, o lo stringersi della macchina da presa sugli occhi in evidenza, o il lieve dilungarsi gentilmente a latere, per portare alla luce la drammaturgia interna al personaggio, quel magma che si agita sotto la blindatura di cromo e acciaio. Ma l’insieme di queste coordinate opera secondo un’impostazione che si rivela inaspettatamente classica, solidamente narrativa, priva delle decostruzioni più ardite viste e amate negli ultimi film. Ferrari è piuttosto un'opera in cui Mann torna a rinegoziare le possibilità mitopoietiche della propria estetica, riaprendo uno studio della relazione tra personaggi e mondo per come, sotto molti aspetti, era rimasta sul tavolo di Heat. Non a caso, assieme a quel capolavoro fiume e film-mondo, Ferrari è il film dalla presenza femminile più intensa e importante, l’opera che forse più di tutte si sforza di creare un duopolio che sia anche di genere oltre che di vedute e morale. Scisso rigidamente in due, con una blindatura che rispecchia l'anima del personaggio, il film si divide nettamente in interni ed esterni, sospensione e aggressività visiva, femminile e maschile, in un costante intersecarsi dei piani che solo nell'ultima parte, quella dedicata alla corsa delle Mille Miglia, deflagra e lascia spazio alle soluzioni manniane più muscolari e tecnicamente elaborate. Sospinto dal tipico determinismo pragmatico che anima questo cinema, il personaggio di Driver assorbe in sé gli estremi delle dicotomie passate, in lui convive il controllo e il bisogno di fuga, Hanna e McCauley, il rimpianto e la necessità di restare e costruire, il doppio è il suo passato imprigionato dentro il muro che lui stesso ha costruito, prigione del sé atta a sopravvivere quando la morte ti è addosso ogni giorno e il pensiero va solo al metallo ciclicamente in costruzione, corsa, distruzione. Nuova carne senza particolare gloria, orgoglio soprattutto, e angoscia mal sopita.

Due sequenze (il montaggio incrociato in chiesa dell’inizio, e la sequenza operistica intessuta di flashback) mettono con chiarezza le carte sul tavolo: Enzo Ferrari nasce sul solco di Michael Corleone, e di quell’italianità, di quei gesti e lutti e necessità di tenere ogni cosa dentro, esponendo alla luce del giorno la sola maschera impassibile dell’indifferenza, è replica ed estensione. Dentro Ferrari c’è molto Coppola e molto dell’Italia cinematografica vista da fuori, attraverso i cifrari offerti dalla mitologia mafiosa e dalla femminilità casalinga, Penelope Cruz sempre come Anna Magnani, melodramma da interni e violenza domestica che ribolle tra frustrazione e rapide esplosioni di violenza. Come Michael, Ferrari vive secondo un codice in cui non si tollera che innocenti ed estranei vengano coinvolti nella cifra mortifera del gioco, quei bambini e famiglie dell’incidente mortale di Guidizzolo sono vittime innocenti che non si possono accettare. L’altro lato di questo sistema morale è però la distanza che isola da tutto e tutti, le scelte drammatiche che alienano nel lutto; la perdita ne fa una figura costantemente fuori di sesto, disallineata, e comunque dotata di una forza gravitazione che attira a sé portando fuori fuoco chiunque gli si avvicini. La moglie Laura è tra tutte le figure quella più straziante, l’unica che cerca di opporre una propria autonomia drammatica in quanto colei che vive a pelle tutte le emozioni che il marito si opera sistematicamente a congelare. Rea di aver perso un figlio senza porre rimedio, è la socia malvoluta negli affari e nella vita. Tolta lei, e gli occasionali interventi della madre, Ferrari è un sistema di autonomia solitaria, come visto a poca distanza anche in Oppenheimer. Curiosamente vicini tra loro, i due film lavorano su figure geniali della tecnica isolate dal consorzio umano, entrambi impegnati a conservare una distanza muraria operante tanto come rifugio che come prigione. In entrambi i casi il giudizio è sospeso, la morte fiorisce da un prodigio tecnico senza castigo immediato, le azioni passano alla storia sulla pelle degli altri, che siano metallo o radiazioni il viatico di ciascuna ambizione.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/09/2023

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